Promesse non mantenute/seconda parte

Originariamente pubblicato su Fare Spazio, pubblicazione parte di BilBOlbul: progetto vincitore dell’avviso pubblico “Promozione Fumetto 2021” della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Lo riproponiamo qui con lievi modifiche fatte dall’autore.

Un esperimento quasi eseguito

Se pescassimo a caso venti recensioni di graphic novel pubblicate negli ultimi dieci anni, di lunghezza superiore alle duemila battute, e contassimo quante parole sono riferite alla dimensione narrativa (storia e personaggi) e quante a quella visiva (disegno e messa in pagina), quale proporzione potremmo ottenere? Non avendo i mezzi e ancora meno la pazienza per una seria analisi quantitativa, mi affido alla mia sensibilità di lettore e scommetto su un ottimistico 80% contro 20%. Una sommaria verifica, compiuta vagando tra le pagine di un famoso sito di settore, conferma che anche quando si parla dei personaggi, che sono fatti di segni prima che di parole, raramente si fa cenno a come si modula la loro figura, a come si muovono, allo spessore della linea che li circonda, al colore e a cosa tutto questo potrebbe esprimere. Salvo in casi sensibilmente fuori norma, il formato non viene indicato, nemmeno nei dati tecnici; a volte, anche questa soprattutto se insolita, si specifica la tecnica, più raramente le soluzioni di messa in pagina, che dovrebbe poi essere il luogo dove risiede lo specifico del fumetto, ammesso che ne esista uno.

In genere, al disegno si dedica un inciso, tendenzialmente formulaico, meglio se a precedere una frase importante sul tema del libro. A guidare la considerazione della parte visuale del fumetto – sotto una patina di impressionismo critico, tutto affidato alla scommessa di imbroccare l’aggettivo – sembrerebbe allora una sorta di iconologia alla buona, votata a imbrigliare e ad allineare la forza di quello che vediamo alle ragioni che abbiamo riconosciuto nel racconto (sia inteso fuor di polemica: sto pensando ora, di base, alle recensioni che ho scritto).

A colpire è il regime di separazione e di conseguente subalternità tra ciò che viene riconosciuto come racconto e ciò che, si suppone, lo porta. Mi viene in mente che raccontare con o attraverso le immagini non equivale a lasciare che le immagini raccontino. Meglio: le immagini raccontano di per sé, indipendentemente dalle buone storie, dalle strutture narrative, dai personaggi costruiti bene. Potrebbe essere utile ripensare il modo in cui viviamo la relazione tra immagini e parole nei fumetti, e vale anche per quelli muti.

L’arte confusa

Ricapitoliamo: ‘graphic novel’ ha funzionato come parola d’ordine che consente l’accesso a stanze che al fumetto erano precluse, può racchiudere una parte interna al più grande insieme ‘fumetto’, ma è anche, in fin dei conti, un modo come un altro per indicare l’oggetto misterioso di cui parliamo. Fumetto, bande dessinée, comics, manga, historietas… Il fumetto è l’arte a cui ci si riferisce soltanto per sineddoche o per metafora. E il successo delle definizioni, per quanto la cosa ci possa infastidire, dipende dalla disinvoltura con cui vengono usate. Mai, però, ridurre il fumetto contemporaneo alla dicotomia, già di per sé incerta, tra graphic novel e fumetto seriale. In questo articolo, la definizione si appoggia di principio su quella delineata nell’introduzione, ma qualche slittamento reciproco tra i termini ‘fumetto’ e ‘graphic novel’ qua e là accade, non sono proprio riuscito a impedirlo.

Esistono forme di fumetto che si sono sviluppate quasi per contrappeso o antidoto al mainstream romanzesco, e che portano l’atto del guardare in primo piano. Sono fumetti che frantumano o dissolvono la narrazione, che scardinano forme e formati, che antepongono i valori ritmici a quelli logici, quando non mettono in crisi la figurazione stessa e puntano all’astratto. Raramente, e semmai in incognito, raggiungono gli scaffali delle librerie generaliste, mentre proliferano nelle autoproduzioni, nelle pubblicazioni specialistiche, sul web. Di norma vengono indicati mediante varianti dell’espressione “non ci si capisce niente”. Il punto è, ovviamente, cosa pretendiamo di capire, e il problema è che in questi casi le immagini non sono (o non fingono di essere) mero strumento, che il veicolo non veicola come ci aspettiamo, che anzi non sappiamo esattamente cosa aspettarci e facciamo fatica a trasformare le immagini in parole. Perché è questo che facciamo quando leggiamo i fumetti: trasformare le immagini in parole.

Più che “giustapposte” – nella classica, contestata, mai dismessa definizione di Scott McCloud – le “immagini e le altre figure”, che comprendono le parole, sono confuse tra loro. Confuse nel senso di fuse insieme, senza che si possa decidere dove cominci un’immagine e finisca l’altra, e così sono confuse anche immagini e parole, quelle segnate sul foglio e quelle implicite che, leggendo, ci mettiamo noi. È il nostro atto di leggere (raccogliere, ordinare e, fino a dove possiamo, verbalizzare) i segni sparsi sulla pagina, mentre li guardiamo, a rendere quei segni fumetto. 

Situare il fumetto nel luogo in cui si incontrano i poteri della lettura e quelli delle immagini può aiutare a riflettere su come si sia articolata l’ascesa del graphic novel, su quali perdite, soprattutto, abbia comportato ogni conquista. Nessuno sviluppo storico è mai necessario o inevitabile, e si corre sempre il rischio di dimenticarsi quanto avviene ai margini, figuriamoci nella storia del fumetto, che è fatta di periferie prive di centro. Ugualmente, non dovremmo mai dimenticare, specie se il confronto con le arti della parola ci rassicura, che il fumetto può somigliare al saggio o alla poesia quanto alla narrativa. E che può essere letto come un saggio e una poesia non meno che come un racconto.

Breve catalogo degli ibridi

In questo quadro, è interessante notare come capiti spesso di identificare con la categoria di ‘ibrido’ un risultato che non si riesce a incasellare nella forma che viene riconosciuta come tipica del fumetto o del graphic novel. L’idea di ibrido presuppone una purezza che, tuttavia, nel nostro caso non esiste (o non è stata ancora identificata, grazie al cielo), e così in questione non ci sono l’essenza del graphic novel o del fumetto, ma i nostri automatismi culturali nel recepirli e organizzarli. Ogni ibrido qui brevemente elencato è un ibrido percepito, che varia in base al contesto e in misura della competenza del frammentato pubblico del fumetto.

Per primo viene l’ibrido endogeno, quello che nasce dal cuore del fumetto stesso, assolutamente moderno nella libertà formale, principalmente visivo, opposto o complementare al graphic novel, di cui è sostanzialmente coetaneo.

Il “non-graphic novel” a cui prima si faceva cenno ha una storia densa e ramificata, di cui lo stesso romanzo grafico si è nutrito. In questa storia, parallela e intersecante, la messa in discussione della forma narrativa avviene per via di una riconfigurazione dello spazio della pagina e delle traiettorie che lo attraversano, particolarmente evidente in quegli autori nordamericani che nei primi anni 2000 hanno guardato all’esperienza del Forth Thunder o al lavoro della casa editrice Picture Box. Qui, le storie di autori come Mat Brinkmann o Brian Chippendale funzionano come esplorazioni di uno spazio libero senza inizio né fine, procedono per accumulo o divaganti, tra l’esperienza videoludica e lo stato alterato di coscienza. 

In area francofona, un esempio può essere la preminenza della ricerca visiva che ha caratterizzato Frémok, un editore e un’idea di fumetto decisamente distante tanto dalla tradizione franco-belga come dal roman graphique. Le storie emanano dalla densità delle immagini, dal loro potere di assorbire e poi restituire pensiero, memoria, letteratura. Posizionare le opere di Yvan Alagbé, Dominique Goblet, Anke Feuchtenberger o Vincent Fortemps su, o oltre, una linea di confine è un pregiudizio fatto passare per ovvietà. 

In Italia, dal fremente sottobosco autoprodotto di inizio millennio, spicca il caso di Canicola, dove l’istanza narrativa, di carattere non-psicologico, rimane invece centrale, ma alternativa alla forma popolare e “ottocentesca”, memoriale o meno, che in quegli anni prendeva il sopravvento. 

Ancora, particolarmente significativa per conoscere le tendenze in atto, è l’azione di kuš!, microeditore lettone che da quindici anni raccoglie molte delle eccellenze del fumetto di ricerca (?) internazionale. Tra le piccole pagine formato A6 di «š», la periodica antologia di kuš!, canonici racconti brevi procedono fianco a fianco con pagine dove l’astratto, il minimale, la tensione ritmica e l’espressione cromatica regolano occhi e attenzione. Kuš! è parte di una tendenza sempre più diffusa che ignora scientemente l’idea di confini del fumetto, ne fanno parte anche i gli estatici vortici narrativi di Lale Westvind come i graphic novel di Olivier Schrauwen, prefigurazioni di un fumetto futuro che hanno la ricchezza generativa degli edifici di Ware, ma sono prive di quel senso di colpa derivato da un peccato originale – la radice popolare del fumetto – che appare ormai in via di redenzione.

Anche graphic novel scaturiti da un’attitudine fumettistica, al contempo complessa e primordiale, come gli ultimi due libri di Giacomo Nanni – Atto di Dio e Tutto è vero – possono essere identificati come ibridi, tanto dai lettori di fumetti storici che dai neofiti. Sono libri in cui il punto di vista post-umano – o, con altra chiave di lettura, metafisico – sostenuto dall’autore riesce a creare un eccezionale regime di parità e di scambio tra immagini e parole. O ancora, si possono citare i libri di Marco Corona, dove le immagini trasudano racconto, rifiutandosi categoricamente di piegarsi a un ordine narrativo che non sia quello proprio interiore.

Vengono poi gli ibridi di matrice letteraria, quelli degli scrittori-artisti, trainati dalla parola. Potrebbero rientrare in questa arbitraria categoria tanto Il manifesto incerto di Frédéric Pajak, serie di volumi tra il saggio letterario e la pagina diaristica, dove testo e disegno sono separati senza equivoco, eppure talmente interrelati in un sistema di risonanze sottile e paritario da costituire un genere a sé. Rappresentano forse una prima chiara evidenza che si possa essere graphic novel senza essere fumetto? Un linguaggio proprio, ma molto diverso, è quello sviluppato da Kristen Ratke per Seek you: A Journey Through American Loneliness, classico mélange di vissuto e riflessione saggistica. Il disegno, di per sé anonimo, di Ratke prende vita grazie al testo e all’intelligenza della messa in pagina. Chi vuole, stando alla rete, lo chiama graphic novel, anche tra gli accademici più accreditati.

Sempre più estesa e importante è poi la zona grigia tra graphic novel e albo illustrato, tanto che gli editori hanno preso a oscillare tra l’una e l’altra definizione, riferendosi allo stesso oggetto, secondo convenienza. Qui siamo davvero nel regno del dichiarato arbitrio, dunque di una regione libera e ricca di possibilità, dove sembra più conveniente far discendere le nostre definizioni, volta per volta, dal caso specifico piuttosto che classificare il secondo in base alle prime. Esempi classici sono L’approdo di Shawn Tan (un fumetto che si può proporre a chi cerca un albo?), Vacanze di Blexbolex (un albo che si può proporre a chi cerca un graphic novel?) o, caso controverso, La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick (un graphic novel per chi non capisce i fumetti?). 

Più chiaramente ibrido potrebbe essere il caso di Heimat di Nora Krug, dove ogni avanzamento o svolta nella ricostruzione della storia di famiglia dell’autrice durante il nazismo comporta una diversa organizzazione visiva del passato, che può prendere la forma del testo illustrato, del fumetto, dell’appunto, della documentazione fotografica… con i cambi di ritmo, percezione e attenzione che ne conseguono. Qui, la sfida allo sguardo e alle capacità di lettura è dichiarata, ma esistono casi più sottili. Con Ho remato per un lord, ad esempio, Davide Reviati crea un oggetto orgogliosamente incerto. Pubblicato in coproduzione da un editore di graphic novel e da uno di albi illustrati (Else edizioni e Coconino Press), questo libro orizzontale contiene integralmente il racconto omonimo di Stig Dagerman, ma, più che illustrarlo, lo avvolge in sequenze di immagini che, se nulla tradiscono della lettera, la portano con sé, quale elemento di un libro nuovo. È un esempio di albo illustrato che guarda con ostinazione al fumetto oppure di fumetto possibile? 

Mancano all’appello il troppo negletto campo del fotoromanzo, che più che un ibrido è forse un’altra forma di vita, e due forme di ibridazione che esulano dal campo del libro e dunque dai confini autoimposti – più per ragioni di spazio che di coerenza interna – a questa riflessione.

Può essere nondimeno utile citare di sfuggita le ibridazioni del fumetto con l’arte plastica per eccellenza, la pittura. La separazione tra arti del tempo e arti dello spazio, della parola e dello sguardo, è alla radice dell’ostracismo subito dal fumetto come delle modalità che ne regolano la lettura, la teoria e il discorso critico, ma anche della carenza di attenzione in merito alle qualità narrative delle arti plastiche. Così le opere di Liechtenstein, che prosciuga e poi trasfigura il potere di racconto dell’immagine-vignetta, rimangono largamente più conosciute e studiate dei tardi dipinti di Philip Guston, che tendono invece a una riattivazione della narratività nella pittura, o delle mappe da guardare e leggere di Oyvind Fahlstrom, contemporaneo della pop art e fumettista senza libro. Nonostante la crescita dei visual studies, sul versante dell’Arte continua a mancare una sponda critica che prenda sul serio il fumetto, e questo ha influito e influisce sulla sua evoluzione e percezione.

Rimane, infine, l’ibrido più significativo, l’iperibrido proteso verso il futuro che raccoglie le mutazioni del fumetto nel digitale e le sue declinazioni in rete. Ma, come anticipato, è un campo da gioco troppo ampio e instabile per mostrarlo qui anche solo di scorcio. Rimane la speranza che alcuni degli spunti e degli errori contenuti nelle righe precedenti possano avere qualche utilità per riflettere anche in quella direzione. 

Le promesse del mutaforma

Mi rendo conto che mappare i casi di ibridazione di un oggetto del quale non sappiamo circoscrivere, e non possiamo rivendicare, una “purezza” può sembrare discutibile, anche considerando l’irriducibile fluidità teorica di ogni discorso sul fumetto. Guardato dal punto di vista del romanzo grafico, il riconoscimento di quelle che identifichiamo come ibridazioni (a cominciare da quella con l’illustrazione) si pone sotto una luce determinata, mette in evidenza certi aspetti invece che altri e produce i suoi punti ciechi. 

A complicare tutto c’è la possibilità che il fumetto non sia già un ibrido di per sé, come a volte viene considerato, ma un mutaforma: intenderlo dunque come impiego delle qualità narrative delle immagini (o del loro libero sprigionarsi), che può prendere diverse forme storicamente determinate, contaminarne altre, dissolversi in altre ancora. Il graphic novel è l’ennesima mutazione, risultante dall’incrocio tra modi di fare, modi di vendere e modi di leggere il fumetto. 

Il fumetto puro non esiste, e non è certo quello convenzionale che si riconosce dai balloon, dalle strisce, dalle storie che sembrano romanzi e dalle sequenze che sembrano film. Oppure, se non suona eccessivamente arbitrario, possiamo riconoscerlo, senza definizione, in quello spazio-tempo che si attiva nel momento in cui le immagini prendono vita e, in quanto vita, diventano qualcosa di raccontabile, una storia. Solo così, At the Circus in Hogan’s Alley di Outcault, ormai screditato come origine del linguaggio, può essere di fatto un esempio di “purissimo” fumetto.

Tuttavia, lo sforzo utile, quanto alle ibridazioni, non sta tanto nel classificarle, quanto nel riconoscerne le possibilità. La nuova attenzione che il fumetto ha guadagnato trasformandosi in graphic novel (nuova perché di carattere qualitativamente inedito rispetto alle precedenti) ha avuto tra le varie conseguenze quella di confermare, rafforzandolo, il livello di subalternità dell’immagine rispetto alla parola. La più grande delle promesse non mantenute è forse proprio questa mancata liberazione, questo non riconoscimento della polimorfa complessità delle immagini, della generalizzata, automatica rinuncia ad “ascoltarle”, a goderne con pienezza, a imparare da loro. 

So che corro il rischio di ratificare così l’esistenza di una separazione netta tra parole (racconto) e immagini (sua rappresentazione), che nella realtà del fumetto non esiste, per quanto sia rimessa più o meno consapevolmente in funzione ogni volta che si parla di un’opera specifica. E so che tanto è successo nel fumetto sul piano visivo, in questi anni, anche in quello che viene offerto come graphic novel. Ma è un problema di attenzione e di libertà. Libertà per chi disegna di affrontare il vuoto infinitamente colmabile della pagina bianca (virtualmente pari alla tela infinita del digitale), e attenzione per chi legge alla voce delle forme disegnate in quello spazio. Una libertà e un’attenzione che si sostengono a vicenda. 

A volte, ciò che viene percepito come ibrido non allontana il fumetto da sé: lo riporta verso il suo centro mobile e misterioso. A volte le immagini si ribellano al loro ruolo di portatrici di un senso indotto dall’esterno. E se può essere utile, e sorprendentemente appagante, rivolgersi a fumetti “strani”, lontani dal nostro canone attuale, altrettanto sarà riaprire quelli “normali” esercitando le capacità di sguardo e di lettura (abilità creative) che le immagini narranti possono insegnarci.

I fumetti esistono da più di cento anni, oppure da duecento, oppure da sempre. Non so se ho imparato a leggerli e insisto a farlo perché continuano a sembrarmi una possibile forma di pensiero, oltre che una forma di vita.

Quanto ai poteri narrativi dell’arte visiva, svincolati dall’arrugginito ingranaggio editoriale, hanno di fronte a sé gli orizzonti sterminati dei mondi reali e virtuali del presente. Riconoscere la specificità di questi poteri, e quindi studiarli e nutrirli, è il compito capitale che una critica – una critica ibrida – dovrebbe porsi per il futuro. (Alessio Trabacchini)

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