The Cage


The Cage – Martin Vaughn-James
191 pagine
Coconino Press  

Coconino si cimenta con un recupero importante, un’opera ostica ma dall’alto valore sperimentale e, alla luce dei successivi epigoni, di importanza storica per il medium fumetto. The Cage di Martin Vaughn-James è considerato il capolavoro dell’autore. Pubblicato nel 1975 in Canada, l’edizione della Coconino può vantare la prefazione di un’altra grande firma del fumetto d’autore: Seth. Insieme a Chester Brown e al compianto Joe MattSeth formava il cosiddetto Canadian trio ed è l’artefice di lavori importanti e dall’azione rarefatta come il bellissimo Clyde Fans (sempre edito da Coconino). Nonostante la sua autorevolezza nel campo del fumetto, lo stesso Seth ammette di avere un rapporto contraddittorio con l’opera di Vaughn-James, che esercita su di lui un misto di attrazione e repulsione, al punto che a poco o niente gli sono valsi gli anni di studio e i ripetuti ritorni a essa.

Vaughn-James ha sempre avuto un rapporto conflittuale con la parola in quanto ingombrante filtro che si frappone alla realtà. Ce lo spiega meglio lui, introducendo il suo primo fumetto, The Elephant (1970): “La nostra società crede nelle parole, non nelle persone o nelle cose. Siamo astratti. Quando percepiamo un oggetto, una persona o un sentimento, vediamo prima una parola e, se non siamo già troppo lontani, dopo la cosa. Il nostro mondo non è più popolato di alberi e tempeste e pietre e sangue ma di parole ‘alberi’, ‘tempeste’, ‘pietre’, ‘sangue’. La nostra mania per l’uguaglianza e il benessere raggiunti attraverso sistemi di logica e ordine ha fatto sì che dobbiamo rifiutare il nostro caos naturale e accettare tutti lo stesso modo di percepire il cosiddetto ‘mondo reale’ […]. Il mondo moderno è una fantasia”.

Al secondo fumetto, The Projector, invece, lavora sulla dissociazione dell’io narrante, sdoppiandolo in una voce off cui il protagonista si rivolge: un misterioso e indefinito “tu” che risponde ma che non compare mai nel campo visivo. Il volume successivo, The Park: a mystery, farà da ponte al seguente, ambientato in un parcheggio deserto dove l’umano è assente. Lo stesso parcheggio è collocato poco distante dalla stazione di pompaggio: un edificio in stile neoclassico (simile al celebre municipio di Ritorno al futuro, per intenderci) che sarà al centro di The Cage.

Fumetto pieno di macerie (a un certo punto la stessa vignetta comparirà come spezzata da uno squarcio, e ricomposta malamente), anche in The Cage, come nel precedente, l’umano è completamente espunto. Non vi sono creature animate in quest’opera, ma solo il loro segno rappresentato dagli oggetti che il passaggio umano ha lasciato dietro di sé. L’interrogativo è se questi oggetti, privati dell’essere umano per servire il quale sono stati creati, conservino un senso indipendente o, una volta esaurita la loro funzione d’uso e, quindi, abbandonati, rimandino lo stesso mortifero messaggio di insensatezza dei non-luoghi caduti in disuso.

In anticipo sulle critiche all’antropocene o sulla visione primitivista di John Zerzan che vedono la natura riprendersi la città, Vaughn-James mostra strutture ed edifici vuoti, quando non in decomposizione, butterati da crepe, abitati da stracci colti in flagranza di amplessi, antropomorfizzati, simili al surrealista Angelo del focolare di Max Ernest.

Il fumetto si apre all’ombra indifferente di ziqqurat, innanzi al quale nessuna epifania folgora il lettore. Sfilano, in selvaggia parata, carcasse di informi mezzi di comunicazione di massa (radio, telecamere, macchine fotografiche), trasfigurati da un’obsolescenza che li esalta a opere d’arte. Tutto il fumetto è in sottrazione e negazione: non-luoghi, non-composti, non-servibili, non-più-comunicanti. Feticisticamente contorti, gli oggetti incarnano la paradossale deprivazione della comunicazione umana a seguito dello sviluppo di strumenti di connessione di massa che amplificano l’infosfera (e siamo solo negli anni Settanta).

Sebbene reversibile (gli oggetti mutano, si fondono, le pareti si reintegrano, ma solo per tornare a sfaldarsi), la distruzione messa in scena da Vaughn-James,del medium oltre che del messaggio, non ha nulla della generatività schumpeteriana: non conduce a nulla che ne giustifichi la ragione. Ciò che è vivo si decompone, con la sola eccezione di tappeti inanimati di piante a foglia d’orecchio d’elefante, che si ripetono ossessivi come pattern ridondanti, rizomatici e frattali. Tutto il resto, anche se inerte, si innalza ma solo per contorcersi, decantare e passar via, senza soluzione di continuità. Compreso il tempo.

Soprattutto il tempo. Tempo che scorre in modo non lineare, come in un universo quantistico, così che ciò che è rotto si ricompone per rompersi di nuovo. Tanto da chiedersi se in questa fantomatica e disabitata stazione di pompaggio l’unica cosa che vi si pompi sia il tempo, ovunque circolare ma che qui, per qualche capriccio, come all’interno di un maelstrom, si avvolge e si riannoda, come un nastro magnetico di Moebius in una vecchia audiocassetta.

Se tra queste tavole il principio di linearità si decompone e quello conseguenziale trova nuova deroga, anche quello di verità non può rimanere immune, e così, in un ricorrente incubo nietzschiano, le immagini e gli oggetti si moltiplicano, affastellandosi le loro copie e riproduzioni. Le pagine scorrono, accompagnate da una didascalia che fa da voce off, talvolta descrivendo la costruzione della tavola stessa, talaltra conducendo il lettore verso altre elucubrazioni, proseguendo quella critica della parola già presente in altre opere dell’autore.

In The Cage sembra d’intravedere in nuce i prodromi di altre, sperimentali, opere fumettistiche, a loro volta osannate come nuove esperienze a cui questo mezzo artistico è riuscito a condurre; basterebbe questo a rendere lodevole la trasposizione in italiano, nonostante la sua traballante attualità e la difficoltà della sua lettura e interpretazione. Una di queste è Here di Richard McGuire,fumetto che ritrae lo stesso ambiente (una casa coloniale statunitense) ma alternando momenti temporali lontani e disparati (dagli anni Novanta all’indipendenza americana, all’era glaciale, al futuro prossimo remoto), in un collage che annulla la distanza temporale e fa dialogare persone, oggetti e animali separati, come se in quel punto, qui, il tempo collassi e tutti i momenti possano convivere e avere una vista d’insieme di quanto sono connessi, e trascurabili le vite che li attraversano per uno spazio che gli sopravvive immune. Mentre in McGuire lo spiazzamento è conferito dallo scostamento temporale verso un annullamento del continuum tra spazio e tempo, in The Cage è reso da interni vuotati di presenza.

A cosa, in tutto ciò, The Cage deve il suo nome? Disegnata prima come un recinto e poi come quattro pareti di filo spinato (le stesse dei lager e dei confini, ribadendo l’attualità e l’atemporalità di questo fumetto che è un inno alla disumanità), la “gabbia” è anche quella delle vignette che si rincorrono, ovviamente, nelle quali riecheggia, letteralmente, un che di umano di cui è rimasto solo l’eco di fondo. Vaughn-James disseziona un non-luogo in corpore vili (mutando solo medium) al pari di Perec, nel tentativo di esaurimento di un luogo. Luogo che non ha neanche più un messaggio da esaurire se non lo stesso medium. Tra messaggio e medium, in The Cage non c’è distinguo che tenga: entrambi procedono verso sentieri che nessuno avrà più il desiderio di battere.

Impossibile, quindi, che non siamo dalle parti dell’OuLiPo, la letteratura potenziale, di cui Perec fu uno dei padri fondatori. Anzi, dalle parti dell’OuBDPO, come patrocinata da Fawllty in un articolo del 1990. Nel solco di opere come Blue di Lewis Trondheim (dell’OuBDPO, non a caso, uno dei firmatari), edito in Italia dalla ProGlo: storia (ça va sans dire, muta fino a un’asfissiante afasia) di un’ameba il cui io si conforma, disseziona, diluisce, unisce e arricchisce con altri organismi monocellulari, in un crogiolo da brodo batteriologico primordiale. Come pure un’eco di questa sperimentalità risuona nelle opere di un altro firmatario del fumetto potenziale, quel Patrice Killoffernel cui 676 apparizioni, sempre edito da Coconino, il sé stesso dell’autore si moltiplica, incontra e scontra con altri sé stessi (676, appunto), che sono tutti i frammenti (in un fumetto, nuovamente, muto) del suo ego, scissi dall’età postindustriale, che si scannano, accoppiano, corteggiano e molestano, restituendolo, infine, alla sua solitudine di partenza.

Per completezza aggiungerei anche l’autoironico Longshot Comics. La lunga e inutile vita di Roland Gethers (e il suo seguito, La promessa mancata di Bradley Gethers) di Shane Simmons, anch’essi editi da ProGlo: storia di un’epopea familiare resa minimalisticamente con soli puntini in luogo dei personaggi in vignette vuote, col pretesto che l’azione è stata ripresa da centinaia di chilometri di distanza per via della prospettiva.

Ciò detto, nessuna di queste opere ha la stessa disarmante forza di The Cage, in cui la frustrazione per un sens perdu, la mancanza di concessioni a qualsiasi pretestuosa narratività cui appigliarsi nell’aridità di un mondo in cui la reificazione è totalizzante, lasciano il lettore schiacciato tra una vignetta e l’altra, senza nulla che giustifichi la sottrazione della pagina al suo bianco nitore.

Come la pubblicità, secondo Baudrillard, trasmetteva una visione del mondo indifferente all’umano, così le merci a essa sottese, secondo la celebre eresia pasoliniana, sono portatrici di un’affabulante e mistificatoria feticizzazione della morte. Tutto è morto in The Cage. Lo sono le cose, perdendo la loro utilità, impossibili alla ricomposizione. Lo sono gli umani, tutti, donne e uomini, vecchi e bambini, bianchi e neri, poveri e ricchi. L’universo che ci lasciano in eredità è un universo di cose morte, prodotte da macchine. Cose perfettamente sostituibili, dall’obsolescenza programmata. Tra le macerie postumane di Vaughn-James tutto è effimero e privo di senso. E l’autore rappresenta questo messaggio nel medium stesso, portando l’illeggibilità alle estreme conseguenze per mostrare quanto le cose ci abbiano resi alieni a noi stessi, precludendoci qualsiasi possibilità di comunicazione e, quindi, di interconnettività. Che poi è la chiave che conduce alla disumanizzazione. (Roberto Cirillo)


 

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