Promesse non mantenute/prima parte

Originariamente pubblicato su Fare Spazio, pubblicazione parte di BilBOlbul: progetto vincitore dell’avviso pubblico “Promozione Fumetto 2021” della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Lo riproponiamo qui con lievi modifiche fatte dall’autore.

Sulla liberazione delle immagini e il futuro del graphic novel

Il fumetto non è letteratura disegnata. Non è vero che un fumetto può avere la stessa ricchezza espressiva o la stessa profondità concettuale di un romanzo, può averne, semmai, un’altra, sostanzialmente diversa. Il fumetto è un’arte visiva, fa parte di quella numerosa famiglia definita dagli occhi che abbraccia, a pari titolo la scultura, il cinema, l’ikebana o la body art. Il fumetto è anche un modo di raccontare, certo: leggiamo le immagini, una dopo l’altra, mentre le guardiamo tutte insieme. Così come guardiamo le parole, prima di averle lette, e dopo. 

I fumetti non sono libri, ma possono finirci dentro e assumerne la forma (ed esserne informati). I graphic novel sono libri – vale a dire oggetti fisici, simboli e merci –, ma anche un modo di produrre e percepire il fumetto. Come un gioco di prestigio, il graphic novel attira l’attenzione verso certe funzioni del fumetto, quelle specificatamente narrative, mentre il resto (ciò che non può essere immediatamente assimilato alla narrazione, pur nutrendola) nondimeno accade.

A partire da questa sequenza di asserzioni, in bilico tra l’ovvio e l’arbitrario, vorrei tentare di offrire qualche spunto di riflessione su due questioni variamente collegate tra loro: la subalternità della sostanza visiva del fumetto rispetto a quella narrativa nell’orizzonte del graphic novel; l’esistenza, l’individuazione e l’opportunità, di forme ibride di libro a fumetti. 

Il campo è quello del fumetto occidentale stampato, con qualche occasionale incursione nella pittura, nessuna nella riproduzione digitale. L’obiettivo, in questo tempo che segna forse l’apogeo del graphic novel, è volgere lo sguardo verso la zona fertile e nebulosa dove giacciono le possibilità inutilizzate del disegno narrativo oppure, facendo propria un’espressione di Andrea Bruno, “le promesse non mantenute del fumetto”.

Il veicolo del racconto

Partiamo dalla letteratura e dalla constatazione di come oggi, nell’epoca della sua legittimazione culturale, il fumetto si presenti, dissimulato appena dal velo dell’anglicismo, come ‘romanzo grafico’. Graphic novel, lo si è ripetuto alla nausea, è una categoria merceologica, ma anche il progetto di riorganizzazione delle potenzialità linguistiche ed espressive del fumetto attorno a una determinata idea di romanzo e, soprattutto, di non-fiction narrativamente strutturata.

L’assimilazione alla narrativa letteraria che la locuzione comporta, preservando con un aggettivo la natura visiva, si è rivelata per il fumetto eccezionalmente opportuna, e certo fondata.

Come tutte le verità parziali, questa identifcazione risulta utile o dannosa in conseguenza del discorso che lo contiene, ma l’ascesa del graphic novel ha esteso l’idea che il fumetto sia prima di tutto una forma di letteratura al punto di farne l’incontestabile base di ogni riflessione, valutazione, lettura. 

I grandi autori del fumetto letterario che ha portato all’affermazione del romanzo grafico non hanno in alcun modo subordinato la cura del disegno e della messa in pagina – la sostanza visiva del fumetto – ma hanno certamente giocato sull’evidenza “letteraria” del testo scritto. Vale sia per la via nordamericana che per quella europea, che pure inizialmente mantengono le proprie peculiarità. La densità verbale che accompagna e bilancia l’esuberanza visiva di Lynda Barry o di Chris Ware, la tendenza a spingere lo stile in direzione di un quasi-alfabeto segnico di David B., la presenza di una voce letteraria propria e riconoscibile anche indipendentemente dal disegno di Gipi… sono esempi casuali che possono aver contribuito, involontariamente o semi-volontariamente, alla credenza che le immagini siano il veicolo della storia. Per quanto gli autori citati rimangano, anche, perfetti artisti visivi. 

Ho in mente ora la prima pagina di David Boring, una delle opere maggiori di Daniel Clowes, pubblicata per la prima volta tra il 1998 e il 2000 e tradotta in italiano nel 2003. È il testo a portarci avanti e, così sembra, a guidare la lettura. Prima di tutto nel peso spaziale che occupa sulla tavola, scandendo e regolando una tradizionale griglia a sei vignette: l’impressione è che, dove servono più parole, lo spazio del disegno venga eroso di conseguenza. Il narrato in prima persona contribuisce a dare l’impressione che le immagini (che, al contrario, variano ogni volta il punto di vista) siano lì a mostrare quello che il protagonista racconta, e non viceversa. Alcuni indici del ruolo guida delle parole sono tipici del fumetto tradizionale, come lo “Here,…” che nella prima vignetta introduce dall’esterno il luogo dell’azione. Ma già nella seconda vignetta si va oltre: qui i blocchi di testo sono due, entrambi hanno in oggetto il personaggio femminile. Nel secondo, la descrizione verbale si sostituisce al suo volto. Così, nelle vignette successive, sono l’alternarsi dei soggetti (“I”, “She”) e il contenuto del racconto a orientare, oltre che ad annunciare, quello che vediamo.

Daniel Clowes, David Boring, Coconino Press- Fandango

Nella sua plateale aderenza a forme e stilemi del romanzo postmodernista – per quanta ironia, non meno postmoderna, vogliamo scorgere in questa aderenza – un libro come David Boring contribuisce a creare un lettore e un modo di leggere. E questo accade nonostante la sottigliezza con cui Clowes costruisce l’inquadratura, la cura non solo mimetica che mette nella distribuzione delle ombre, la stratificazione estetica racchiusa nel suo segno. Accade nonostante il fatto che la pagina, prima di averla letta (e durante la lettura), di sicuro l’abbiamo guardata. L’ordine che il fumetto letterario riafferma vale ovviamente per il fumetto in generale, è ciò che gli ha dato forma, unitamente al suo contenitore editoriale, nel corso dei quasi duecento anni che ci separano dalle prime histoires di Rodolphe Töpffer. 

Anche se di fatto lo seguono, nella nostra costruzione mentale le parole precedono il disegno, il cui assorbimento avviene per vie misteriose, sul confine dell’involontario. Così, per inesorabile paradosso, alla familiarità col testo scritto – che, ricordiamolo, qualunque definizione si adotti, non è un elemento costitutivo o essenziale del fumetto – corrisponde l’alterità delle immagini, spinte a essere considerate come al sevizio della storia o contrappunto al testo.

Nella cosiddetta civiltà delle immagini, a dispetto della loro proliferazione, sono sempre le parole ad avere il comando: esiste una gerarchia e il graphic novel la mette in scena con spietata, inequivocabile nettezza. Del resto, la “maledizione del veicolo” non ha colpito solo le immagini di cui sono fatti i graphic novel, ma il graphic novel stesso, che viene accolto nei piani nobili del sistema culturale in misura dei temi che affronta. Questo non ha solo condotto alla prevalenza della non-fiction nelle sue varie accezioni, ma ha anche condizionato le nostre modalità di lettura. Modalità che sono sempre, e mai come oggi, in via di definizione, perché il fumetto è un oggetto difficile da identificare e nessuno ce lo insegna a scuola. Ma anche perché, nello specifico, il pubblico del graphic novel è quanto mai trasversale, per non dire disperso, puntiforme.

Disegni come segni

All’origine di queste righe c’è un’insoddisfazione per come mi sembra che i graphic novel vengano letti, per come li leggo io, per il tipo di evoluzione che rappresentano all’interno dell’insieme di pratiche che, in mancanza di termini migliori, definiamo fumetto. E poiché un’insoddisfazione non produce pensiero se non viene messa alla prova, mi ritrovo a tirare giù dagli scaffali della mia libreria graphic novel a decine. Renderò brevemente conto di tre di questi, tutti classici.

Il primo, più canonico che mai, è Persepolis di Marjane Satrapi, pubblicato in Francia tra il 2002 e il 2003 e poco dopo in Italia. Satrapi è una importante autrice del graphic novel senza essere mai stata autrice di fumetti, se il paradosso non pare eccessivo. Artista e narratrice ibrida, ha conosciuto il fumetto da adulta, ne ha imparato le tecniche e ha studiato con attenzione la lezione del nuovo fumetto francese, specialmente Il grande male di David B. Avendo una storia da raccontare, la propria, Satrapi ottiene il massimo nella semplificazione, in quella tensione del “disegno verso il segno”, che David B. teorizzava lucidamente in quegli anni. Ma David B. si muove dentro il fumetto, per quanto semplifichi rimane complesso, crede nel disegno, lascia che parli. Satrapi usa il fumetto, che per il primo rimane un luogo aperto di tensioni mentre per la seconda un mezzo sfruttato con arte. Fumetto-luogo e fumetto-mezzo (altro esempio virtualmente chiarificatore: Julie Doucet vs. Alison Bechdel): può risultare questa un’opposizione utile per prendere in considerazione i fondamenti del romanzo grafico e dell’autobiografia disegnata che si è spesso tentati di sovrapporgli. 

Marjane Satrapi, Persepolis, Rizzoli Lizard

La prima pagina di Persepolis è paradigmatica della nuova forma in ascesa, il linguaggio dell’autrice già compiuto. “Questa sono io quando avevo dieci anni. Era il 1980”: prima persona, approccio memorialistico e quello scarto del racconto al passato affiancato all’irriducibile presente delle immagini che il cinema ha reso familiare, ma che nella temporalità arbitraria del fumetto assume un diverso peso. Soprattutto, funziona qui la sincronizzazione tra lettura del testo e lettura delle immagini, presentate in uno stile assertivo e minimale, inequivocabili nelle informazioni che danno come nel tessuto emotivo. Questa estrema, rapida leggibilità è la chiave di una generalizzata possibilità d’identificazione. L’immagine disegnata si offre come il servitore perfetto.

Nel 2004 esce Appunti per una storia di guerra, primo graphic novel di Gipi dopo una serie di racconti brevi. È uno dei libri che hanno cambiato il modo di guardare ai fumetti in Italia, ed è pubblicato da Coconino Press, la casa editrice che ha contribuito al cambiamento in maniera più organica e profonda. Gipi viene dal fumetto e porta nella nuova forma un carattere unico, un equilibrio ammirevole di intimismo e teatralità. Usa spesso l’acquerello, una tecnica in sé intima e teatrale: tutti ne abbiamo familiarità e per tutti è facile riconoscerne la suggestione immediata. Incapace di disegnare male (cosa che gli permetterà in seguito di giocare con questo concetto), Gipi seduce prima di tutto con il disegno. Nondimeno, la pagina d’apertura di Appunti mostra come la cura per la parola, la sua inconfondibile voce di scrittore, riesca a imporre ritmi e colori emotivi. Questa sua prima storia lunga ha le dimensioni dell’albo francese, quattro strisce per pagina, non il 17 x 24 cm che in quegli anni non è ancora il formato principe del romanzo grafico. È ancora una volta un racconto al passato e in prima persona, ma gestito con un ritmo variato, che cela la sua complessità. Dieci vignette, dieci cambi d’inquadratura, la filigrana psicologica dei personaggi che emerge ai primi tratti d’inchiostro, ventiquattro blocchetti di testo che per l’autore sono parte integrante, fisica, dell’immagine: le immagini di Gipi non sono mai semplici, ma sanno fingere di esserlo. Appunti è un libro parlato, il lavoro sul testo verbale è così evidente da passare facilmente in primo piano, i ragazzi perduti nel cupo dopoguerra futuro hanno bisogno di una storia che sia letteratura. 

Dodici anni dopo – e dopo libri, film, premi Strega, pause – esce La terra dei figli. Come Appunti per una storia di guerra, la nuova opera comincia con una didascalia, sola al centro della pagina bianca, a definire il contesto: non più la guerra, ma una più definitiva catastrofe che ha spazzato via la civiltà. Stavolta il formato si avvicina a quello del romanzo, ma anche della tradizionale serialità italiana. Quello che qui mi interessa, e che mi ha portato a riaprire il libro, è una fantasia – l’idea di Gipi come alfiere incontrastato ma riluttante del romanzo grafico italiano – e il ricordo di un libro diviso in due. La terra dei figli comincia con Gipi che si priva della parola, rarefacendo il testo nei campi lunghi e nei silenzi di un paesaggio post-apocalittico. Poi, con atto violento e struggente, mostra il diario lasciato dal padre ai figli, nati dopo la fine della civiltà. Sono dieci pagine fitte di parole corsive e illeggibili, imposte al lettore attraverso gli occhi di due ragazzini che lo sfogliano. Nella soggettiva dell’analfabeta, così possiamo supporre, la scrittura diventa asemica, si offre come puro segno e, quindi, disegno. 

Gipi, Appunti per una storia di guerra, Coconino Press- fandango

Ma se voglio pensare questa come una dissoluzione, rituale quanto concreta, del dispositivo graphic novel fondato sulla parola letteraria, che cosa c’è dopo, nella restante metà del libro? Il fumetto, mi viene da rispondere. E nella più riconoscibile delle forme autoctone, quella bonelliana, quando, con l’aggiunta degli icastici dialoghi gipiani, la rarefazione delle prime pagine lascia il posto all’avventura. E alla ristabilita gerarchia tra immagini e parole.

Forse, la resistenza delle immagini nel fumetto e la ricerca di un riequilibrio possono assumere solo forme provvisorie, e le vittorie, viste da vicino, risultano quantomeno dubbie. 

Come ultimo esempio, apro Jimmy Corrigan. Il ragazzo più intelligente sulla Terra di Chris Ware, raccolto nella sua forma romanzo (orizzontale) nel 2000, serializzato dal 1995 al 2000 e pubblicato per la prima volta in Italia nel 2009 dalla più grande casa editrice generalista del Paese, Mondadori. Ware è amato dagli scrittori, è un illustratore di successo e ha largamente influenzato le pratiche del fumetto contemporaneo. Jimmy Corrigan è il suo primo romanzo, un’epopea della sconfitta attraverso tre generazioni, e rappresenta il primo tentativo strutturato, potremmo osare scientifico, di creare un romanzo a fumetti che non sia il risultato della sovrapposizione della forma romanzo sulla materia fumetto. 

Chris Ware, Jimmy Corrigan, Coconino Press – Fandango

Mi limito ancora una volta all’incipit: lo spazio profondo, la Terra e poi, ostacolo all’immersione nella lettura e dichiarazione programmatica, la necessità di girare il libro di 90 gradi verso destra. Non bastasse, dalla quarta vignetta, per “leggere” il movimento di avvicinamento dal punto di vista universale al protagonista bisogna procedere da destra verso sinistra. Come dire: non dimenticarti che hai in mano un oggetto (con i romanzi non capita), e che questo oggetto è fatto di figure, la cui disposizione è il risultato delle azioni estetiche, arbitrarie e determinate di chi le disegna (scrive).

Continuare la storia del romanzo con i mezzi del fumetto e introdurre il futuro del fumetto in quello del romanzo. Fare ciò che è precluso ai romanzieri che non disegnano, dare alla letteratura reale, con il suo portato critico, psicologico e sociale, le forme dell’architettura virtuale propria della narrazione visiva (il fumetto è letteratura disegnata quanto architettura raccontata). Rimane il dubbio che l’opera complessiva di Ware, così interrelata e organica in sé, sia recepita attraverso una sorta di scissione. Nel disegno, la complessità compositiva e la densità espressiva soggiacciono al potere di seduzione più epidermico, immediato, delle armonie geometriche e cromatiche che rendono immediatamente riconoscibile l’autore. La scrittura, da parte sua, corrisponde con tale fedeltà all’idea corrente di letteratura “letteraria” da esservi accolta, per così dire, ad honorem, senza sussulti. Rimane il dubbio che – al di là del contributo, tra i più alti del fumetto passato o presente – chi legge Ware rimanga ben distinto da chi lo guarda, anche nel caso che siano la stessa persona. L’architettura delle immagini si presta, spettacolare, alla visione d’insieme, oppure viene abitata dalla storia e la subisce. (Alessio Trabacchini)

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