
Per una storia del vocabolario fantascientifico
Molteplici e variegate sono le fonti da cui è nata la figura tipicamente fantascientifica del robot – e tutti i suoi epigoni più o meno stretti, dai cyborg ai supercomputer, che ormai da decenni dominano l’immaginario fantascientifico. “Se le storie dei robot sono divenute nel XX secolo uno dei temi usuali della fantascienza, è proprio perché , all’inizio del XIX, Mary Shelley aveva saputo innovare le ricette del racconto fantastico e delle leggende cabalistiche, aggiungendo un elemento nuovo: la fede nella scienza”, assicurava Jean Gattegno in un saggio inizialmente edito per Europe – e quest’elemento di fiducia nel progresso scientifico nella Shelley si spingeva fino al punto di assegnare il sottotitolo de Il moderno Prometeo al suo Frankenstein.
Del resto, già nell’antichità greca si possono trovare tracce di statue animate e altri lontani antenati della figura del robot: significativa in questo senso è la tragedia Elena di Euripide, ambientata al termine della guerra di Troia, in cui si scopre che l’eroina eponima non ha ceduto alle avances di Paride, ma che la dea Era ha costruito “una statua che respira, fatta di cielo” che ha ingannato tanto i troiani quanto gli achei: i due eserciti avevano combattuto invano per questo illusorio Doppelgänger, mentre la vera Elena veniva tenuta nascosta da Ermes in Egitto. Restando nell’ambito delle leggende e dei miti della Grecia antica, la creazione di uomini meccanici è stata attribuita anche all’inventore Dedalo o al dio Efesto; quest’ultimo avrebbe addirittura costruito un gigante di bronzo di nome Talo per proteggere Europa da ulteriori rapimenti dopo il ratto di Zeus. Lo scrittore francese Pierre Mabille, del gruppo dei surrealisti, nell’ambito di una storia del meraviglioso ha poi saputo trovare antecedenti a suo dire storici di costruttori di automi già nel periodo ellenista, nella figura di Erone d’Alessandria, per poi inserire in questa stessa genealogia anche Leonardo da Vinci.
Volgendoci da Atene a Gerusalemme, non tardiamo a trovare, nel cuore della cultura ebraica, l’idea del golem (גולם), tra le figure centrali dell’immaginario cabalista, antenato in questo caso diretto dei robot fantascientifici. In un certo senso, non solo cronologico, il golem si trova a metà strada tra i racconti sacri sulla creazione, e la narrativa di genere contemporanea. Come rimarcava il noto filosofo ebreo e studioso della cabala Gershom Scholem in un suo saggio sul tema, “di fatto il golem – una creatura nata dall’intelligenza e dalla concentrazione umane, che è controllata dal suo creatore ed esegue i compiti che le vengono fissati, ma che allo stesso tempo può avere una pericolosa tendenza a sfuggire al controllo e a sviluppare potenzialità distruttive – non è altro che una replica di Adamo, il primo Uomo”. Forse questa considerazione cade “assai lontana da ciò che il moderno ingegnere elettronico e l’esperto di matematica hanno in mente, quando inventano il loro personale golem”, computer o robot che sia, ma ogni considerazione sulle potenzialità di androidi self-thinking grazie alla loro “intelligenza artificiale” porta con sé, spesso inconsapevolmente, una radice esasperatamente teologica. Non è un caso, concludeva Scholem, se il famoso grido nietzschiano del Dio è morto si fosse già levato, secoli e secoli prima di ogni Sils-Maria, in un testo cabbalistico che voleva mettere in guardia i lettori dalla fabbricazione di un golem. Tigre schiaccia tigre, creatore scaccia creatore: sembra quasi una legge, certo un verdetto.
Il nesso tra intelligenza artificiale e creazionismo scomodato dalle tradizioni ebraiche sui golem è stato a ben vedere esplorato anche da Ridley Scott nei recenti Prometheus e Alien: Covenant, prequel della storica tetralogia di Alien, non privi a loro volta di accenti byroniani e superomisti. Nel loro saggio sulla fantascienza, i due studiosi Robert Scholes ed Eric Rabkin riconoscevano che “nell’impiego della vita artificiale” la fantascienza dimostra quasi sempre “un chiaro conservatorismo morale”, perché accusa l’uomo di essere “colpevole” di provare a “interpretare il ruolo di Dio”. “Quando la fantascienza impiega gli espedienti della vita artificiale, emerge la sua eredità mitica a conferire un colore colpevole alla lotta dell’uomo contro la morte”: se, a prestare ascolto al mito edenico, l’uomo è diventato mortale a causa della coscienza della mortalità apportatagli dal frutto proibito dell’albero del bene e del male, ogni suo tentativo di prolungarsi la vita per mezzo della robotica o della tecnologia non fa altro che perpetrare e peggiorare questa colpa.
L’attenzione tributata dal cinema di fantascienza nei confronti di robot, supercomputer e altre tecnologie futuristiche, magari tendenti alla dimensione virtuale, non è priva di accenti metacinematografici. “Si pensi al rapporto uomo-macchina che si realizza con il set cinematografico, rapporto per così dire aureo all’interno di una economia dell’industria culturale giunta all’apice della riproducibilità tecnica”, scriveva Alberto Abruzzese nella sua già citata introduzione alle Teorie della fantascienza edite dalla Liguori. “Cinema e televisione sono modi di produzione dell’immaginario che realizzano in quanto tali la fantascienza, il contenuto tecnologico della fantascienza”, tanto è vero che “la mostruosità dello sviluppo tecnologico che la fantascienza ha narrato in ibridi uomo-macchina, in eroi automatizzati, o in automi antropomorfizzati, oggi appare realizzata, banale e quotidiana, nei contatti tra utente e schermo televisivo, o tra giocatore e videogames”, [una questione che il film Tron di Steven Lisberger (1982) e il suo sequel Tron: Legacy di Joseph Kosinski (2010) hanno sviluppato narrativamente in una riflessione complessa e a tratti metafantascientifica.
Un altro termine con cui spesso si designano esseri senzienti artificiali, nel caso in cui essi abbiano aspetto umano o comunque umanoide, è l’evidente calco greco di androide – e anche se la definizione “androide”, a differenza del cabalistico golem, è rimasta tuttora in uso, anche nella fantascienza contemporanea, anche questa parola ha una storia lunga e significativa, che affonda le sue radici nella Scolastica medioevale. Una leggenda narra che il Doctor Universalis Alberto Magno, domenicano, tra i più importanti teologi del Medioevo cristiano, avesse costruito una statua capace di pensiero e di parola, frutto forse del suo sapere alchemico. Il futuro santo l’aveva soprannominata “androide” ma, secondo il racconto, il suo giovane discepolo Tommaso D’Aquino l’aveva distrutta con la forza, temendo che fosse frutto di un qualche patto col diavolo, o forse perché lo disturbava nello studio, o forse, secondo un’altra versione ancora, perché costruito con fattezze femminili e tentatrici. Che l’androide personalmente costruito da Sant’Alberto Magno sia un falso storico pare evidente, ma da fonti accreditate pare attestato che il termine comparisse in un suo scritto del 1270. Numerosi furono i tentativi, dal Quattrocento fino all’Ottocento inoltrato, di realizzare un “vero” androide, mentre nella narrativa scrittori come E.T.A. Hoffman o il nostro Carlo Collodi sembravano rielaborare in forme proprie questa figura già leggendaria. A conferma del detto secondo cui il futuro sgorga sempre dal passato, nel momento in cui gli androidi si affermavano definitivamente come figure letterarie diventando un topos della fantascienza moderna e contemporanea, parallelamente ai primi tentativi di effettive ed efficaci sperimentazioni in fatto di intelligenza artificiale, il termine “androide” aveva già una lunga storia alle sue spalle, fino quasi ad essere un archetipo di sé stesso. E rispetto ad un’ipotetica media dei robot della fantascienza, gli androidi dispongono di un notevole elemento perturbante in più – non per nulla, Freud aveva utilizzato proprio L’uomo della sabbia di Hoffmann per illustrare questo suo concetto. Gli androidi sono pericolosamente umanoidi, a tratti indistinguibili dai “normali” esseri umani, se non addirittura desiderosi di sovrapporvisi: lo dimostra appieno Blade Runner, incarnazione lampante di quel terrore per la mimesi di platonica memoria, quanto nell’immaginario fantascientifico gli androidi rappresentino un terribile attentato al pregiudizio umanista dell’identità.
Paradossalmente, di tutti i termini utilizzati per designare esseri artificiali più o meno senzienti, robot è uno dei conii più recenti. Pare che la sua prima attestazione risalga al 1921, quando venne messa in scena al Teatro Nazionale di Praga una pièce del drammaturgo e giornalista Karel Čapek intitolata R.U.R. – Robot Universali di Rossum. All’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, il termine robot Čapek lo coniò sulla base della parola ceca che indicava il lavoro forzata, rabota, e già quell’originaria pièce di Čapek sembrava contenere tutta l’immaginario sul tema dell’intelligenza artificiale che si sarebbe venuto definitivamente codificando nei decenni successivi. Ritroviamo già in R.U.R. la figura ambigua dell’inventore dei robot, lontano antenato del Tyrell di Blade Runner, l’allegoria smaccata della meccanizzazione indotta dal capitalismo, l’idea dei robot come stranianti Doppelgänger dell’umano, connotati da un implacabile freddezza, e il topos della ribellione della macchina, che nel caso del dramma scenico di Čapek non veniva sventata, ma portava al totale sterminio dell’umanità. Quando, nel finale della pièce, l’ultimo umano sopravvissuto domanda al capo dell’insurrezione dei robot perché hanno compiuto un tale eccidio, la risposta è da antologia: “per essere come gli umani bisogna uccidere e dominare: studia la storia, leggi i vostri libri!”.
Come già visto nel caso specifico e perturbante degli androidi, è inevitabile che i robot, in quanto altro simmetrico e potenziale frère ennemi pronto alla ribellione, almeno nelle opere di fantascienza più consapevoli del genere, si elevino alla funzione di specchio deformante dell’umano. “Nulla è più strano per l’uomo della sua stessa immagine”, era la conclusione caustica che l’ultimo uomo sulla Terra ricava dalle parole del robot, al termine di R.U.R.: e dal momento che un tratto tipico dell’immaginario robotico è quello della spersonalizzazione, non per nulla in opere di fantascienza degli anni venti, come la pièce di Čapek o anche il Metropolis di Fritz Lang, i robot vengono utilizzati come sostituto metaforico delle masse operaie e della loro alienazione. Erano pur sempre i tempi della Rivoluzione d’Ottobre. E se è vero, come Mark O’Connell suggeriva nel suo Essere una macchina, che la “il definitivo compimento della logica del tecno-capitalismo”, perché l’utilizzo lavorativo dei robot implica “la totale proprietà non solo dei mezzi di produzione, ma anche della forza lavoro”, nelle figure di robot o altri simili Doppelgänger dell’umano possono anche risorgere i fantasmi di un indimenticato schiavismo razziale, come testimonia l’opera del regista contemporaneo Jordan Peele, e in modo particolare il suo secondo film Us (2019).(Ludovico Cantisani)