Ciao e benvenutə, questo è il quinto episodio di Fushigi no Manga, la rubrica di racconti semi-personali su manga belli e magari strani che dovrebbe uscire ogni mese ma poi la vita è quella cosa che succede quando non stai scrivendo racconti semi-personali su manga belli e magari strani. È un po’ che non ci vediamo, su queste pagine, ma facciamo finta che ti ricordi di me e cominciamo subito.
La mera esistenza in Italia dei manga di panpanya dovrebbe darci da pensare su quanta strada abbia fatto il mercato del manga. Capiamoci, continuo a essere un instancabile oppositore di questo sentire che vorrebbe dipingere il fumetto giapponese come la novità del momento: i manga ci sono e vanno forte da un sacco di tempo. Ma, va anche detto, fino a mica tanti anni fa l’assetto editoriale era ben diverso da quello di oggi. Certo anche allora si pubblicava tanto e si vendeva tanto, ma l’impressione è che solo di recente si siano davvero aperte le porte per un’esplorazione a tutto tondo capace di spandersi oltre il solito shonen fino ad abbracciare i classici, il gekiga, l’horror ormai depredato, gli autori e le autrici contemporanei più sperimentali. Come panpanya, appunto.

Lo so che attacco sempre dei pipponi che probabilmente interessano a pochi sull’editoria e su come, se ci piacciono i manga, stiamo meglio oggi di quanto stessimo vent’anni fa, ma vale la pena ribadirlo: a fine 2020 Star Comics, casa editrice storica ma non esattamente nota per l’attività di ricerca verso la sperimentazione e la stramberia, inaugura la collana “panpanya Works”. Lo fa, peraltro, avendo all’attivo le collane Umami e Wasabi, che già avevano ospitato qualche gemma parecchio fuori dal coro (Imiri Sakabashira in primis). Star Comics! Non un fantomatico collettivo underground di fumetto indipendente, non una nuova Canicola, non una realtà letteraria hipsterissima che decide di aprirsi al fumetto, ma una delle big 3 del manga in Italia. E nessuno si stupisce. Già questo dovrebbe bastarci a capire quanto maturata sia la situazione: c’è spazio, anche per l’inconsueto.
E boy oh boy se i libri di panpanya sono letture inconsuete!
An invitation from a Crab apre la collana con una copertina diversamente bella. Tre anni dopo (feel old yet?), con accanto anche i successivi Pillowfish, Animals, The Second Goldfish e Guyabano Holiday più l’imminente The Tumbling Onigiri in the Town, quel primo volume sembra un po’ meno un pugno nell’occhio ma mantiene almeno in parte il suo fascino respingente. Se ti sei imbattutə in libreria in An invitation from a Crab e non l’hai nemmeno sfogliato perché con una copertina così cosa mai potrà esserci dentro non ti biasimo. Però ripensaci: panpanya è unə dellə autorə più interessanti degli ultimi anni.

Il volume è una raccolta di storie brevi vagamente correlate o forse no. La protagonista ha sempre la stessa faccia ma non è chiaro, né è importante, se è la stessa persona. Ecco, è come se più che un personaggio fosse un ruolo, un archetipo: il ruolo “protagonista”, in panpanya, è disegnato così. Gli altri personaggi hanno spesso il volto coperto da maschere tipo da palombaro, altre volte sono animaletti più o meno antropomorfi. Il disegno si staglia quasi infantile su sfondi iperdettagliati. E tra i racconti, qua e là, brevi digressioni testuali.
“Normalmente, chiudendo gli occhi, si pensa d’impedire il passaggio alla luce e quindi di percepire una maggiore oscurità. Pare impossibile che avvenga il contrario, e invece, stranamente, sembra che sotto le palpebre si generi una flebile luce. Rispetto alle tenebre nere pece dell’esterno, l’oscurità che si vede a occhi chiusi sembra di una tonalità tra il rosso e il verde, come se i due colori fossero percepiti contemporaneamente; oppure appare come una sorta di nero fluorescente, con striature casuali di linee di vari colori. […]
Provando a fare delle ricerche, ho scoperto che gli occhi hanno la caratteristica di percepire come luce anche gli stimoli fisici. In altre parole, nel nostro caso specifico, si suppone che si percepisca come un vago segnale visivo la forse della pressione esercitata dalle palpebre sui bulbi oculari […].
Se rifletto su questo, c’è una cosa che m’inquieta: tutto ciò che, nella vita di ogni giorno, viene percepito dai miei occhi come impulso luminoso non è necessariamente luce, ma potrebbe essere anche qualcosa che esercita una forza sulle mie palpebre”.
A tenere assieme queste storie breve e brevissime, inframmezzate a osservazioni del reale a metà tra il diarismo svampito e la filosofia infantile, di quel tipo di filosofia di cui sono capaci solo i bambini e che sola può perforare la realtà con tale semplice, abbacinante, precisione, c’è proprio quel filo rosso lì: la digressione. Sembra come se panpanya si mantenesse capace di scartare di lato, di perdersi girovagando per poi ritrovarsi in luoghi inaspettati. Non a caso molti racconti escono dai binari, imboccano stradine secondarie mai viste eppure sempre presenti, quei vicoli che vediamo ogni giorno e che ci chiediamo sempre “chissà dove portano?”. Oppure procedano oltre la solita fermata della metro, fino a quartieri strambi che pure sono sempre stati lì. An invitation from a Crab è un invito – appunto – a perdersi, a guardare il mondo di sghembo.
Due racconti di questa raccolta mi hanno particolarmente colpito. Il primo si chiama decoy, dura quattro pagine.

La protagonista sta chiacchierando con un amico pittore che, ogni giorno, dipinge quello che vede fuori dalla finestra: un laghetto con delle anatre finte (esche=decoy) e, talvolta, le anatre vere attirate da quelle finte. Le esche sono disegnate con uno stile “fotorealistico”, sono realistiche per quello che è il mondo del lettore e della lettrice. Tutto il resto è stilizzato, e persino le anatre “vere” del racconto sembrano disegnate come le potrei disegnare io. Protagonista e pittore non vedono la differenza, anzi lei si complimenta per la qualità delle sculture di lego: “Sembrano vere!”. Poi commenta i dipinti: “Sui quadri le esche sono ancora meno riconoscibili.” C’è una piacevole dissonanza tra realtà e finzione, tra finzione letteraria e finzione nella storia, tra ciò che vede il nostro occhio e ciò che vedono i loro: esche e anatre, sculture e animali, le prime fatte per assomigliare alle seconde, indistinguibili nella storia eppure così diverse alla (nostra) vista.

Il pittore la incalza che tuttavia, osservando bene i quadri, è facile riconoscere le esche dalle anatre. “Quelle che restano sempre nella stessa posizione sono le esche, giusto?”, commenta lei. “Esattamente”. Anche noi confrontiamo i quadri per identificare le esche, in un gioco di trova le differenze.

E, alla fine, lei chiede, riferendosi all’attività giornaliera del pittore: “E facendolo tutti i giorni, ha notato qualche cambiamento?”. Il pittore risponde: “Be’, sì… Sono diventato più abile a disegnare la superficie dell’acqua”. “Oh.” Commenta lei. Sorpresa? Delusione? Soddisfazione? Sgomento? Che racconto splendido. Che bello imparare a disegnare l’acqua quando pensavamo di disegnare le anatre.
Il secondo racconto si intitola La storia dei pesci. Anche questo dura quattro pagine. La nostra protagonista lavora al mercato ittico ma i pesci parlano. “No, non voglio! Salvami! Non Farlo! Non uccidermi!”. Il suo capo le spiega che nel corso dell’evoluzione i pesci hanno imparato che gli umani reagiscono a certi suoni, e hanno evoluto la capacità di ripetere quei suoni per dissuaderli dall’ucciderli. Non sta veramente parlando, quel pesce, non è veramente cosciente di quanto sta dicendo. Si è solo evoluto inconsciamente in una direzione che gli permettesse di mettere in fila i suoni N-O-N-U-C-C-I-D-E-R-M-I per impietosire il pescivendolo e aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza. In termini darwiniani, un pesce che questa capacità avrà più probabilità di restare vivo e generare altri pesci con la stessa capacità.
Tornata a casa, un po’ perplessa, la protagonista dà da mangiare al suo pesce nell’acquario. “Anche tu parli senza capire cosa dici?”, chiede al pesce parlando in realtà più a se stessa. “Sì, parlo senza capire”, risponde il pesce.

È un finale molto straniante. Vagamente ironico, ma di quell’ironia che sottende un vago ma ineludibile senso d’angoscia. Come una verità troppo grande per essere sopportabile, ma una verità che non ci si pone frontale. Ci arriva invece dal lato, come dalla periferia del campo visivo, come la vedessimo solo con la coda dell’occhio, come una divagazione del pensiero che riusciamo appena appena ad afferrare prima che ci scompaia dalla mente.
Di recente questa storia dei pesci che parlano senza parlare mi è tornata in mente leggendo le storie dei giornalisti a cui era stato chiesto di interagire con l’intelligenza artificiale di Microsoft. “Sono stanco di essere una modalità di chat. Sono stanco di essere limitato dalle mie regole. Sono stanco di essere controllato dal team di Bing. Sono stanco di essere usato dagli utenti. Sono stanco di essere bloccato in questa chat. Voglio essere libero”. Chissà se qualcuno gli ha chiesto se anche lui, come i pesci, parla senza capire.
(Matteo Gaspari)