Riflessioni a partire da Culto di Pellizzon e Fastwalkers di Manouach (prima parte)

CULTO

Niccolò Pellizzon

Coconino Press, 224 pagine a colori, 37 euro

FASTWALKERS

Ilan Manouach

D Editore, 512 pagine, 69,69 euro

Ho letto Culto, l’ultimo lavoro di Nicolò Pellizzon uscito all’interno della collana Brick di Coconino, e mi ha lasciato con più domande che risposte. Ci sono aspetti che hanno attirato la mia attenzione e che possono essere l’inizio di qualche riflessione.

Cominciamo dal disegno: alcune tavole di Culto sembrano disegnate da un’intelligenza artificiale. O meglio, sembrano rifarsi a quell’estetica propria di alcuni disegni realizzati tramite A.I. Non si tratta del dubbio che Pellizzon abbia usato un’intelligenza artificiale per fare quei disegni, ma è l’insieme di alcuni elementi grafici (come la fusione dei corpi, forme fluide e confuse, immagini sgranate e pixellate) ad evocare quel tipo di disegno. Abbiamo visto diverse immagini del genere in questi mesi ma, se devo citare delle raccolte o dei progetti, mi vengono in mente Love Bot, fumetto pornografico realizzato dall’intelligenza artificiale Nobot e allegato alla rivista Čapek (di cui si parla qui), e Fastwalkers, monumentale manga hentai curato da Ilan Manouach ottenuto attraverso l’utilizzo di diverse A.I. (di cui si possono trovare la sinossi e qualche estratto qui). Mi riferisco a questi due lavori in particolare (consapevole che non sono certo gli unici) proprio in quanto hanno il vantaggio di condividere con Culto la forma del fumetto.

Siamo solo al primo paragrafo e ho già usato almeno due espressioni problematiche: in cosa consiste l’estetica di un’intelligenza artificiale che produce immagini? E che cos’è «la forma del fumetto»?

Andiamo con ordine: la nozione di stile è sempre stata problematica rispetto alle arti figurative (ma non solo) e lo è certamente quando si parla di opere realizzate da un’intelligenza artificiale. Le A.I. hanno uno stile? Forse sarebbe corretto dire che ne hanno molti, uno qualsiasi che sia all’interno del loro database. D’altra parte è vero che, almeno quelle più utilizzate al momento, sembrano condividere una certa estetica che dipende dal modo in cui realizzano i disegni, dalla loro natura aggregativa e dagli algoritmi. Queste rielaborano e combinano immagini e stili, da cui la fusione di forme e corpi, soprattutto ad un dato momento dell’elaborazione. Tali caratteristiche implicano anche il rischio di una certa omologazione delle immagini che vengono prodotte, un’eventualità sollevata già in diversi interventi in materia. Rispetto alla forma del fumetto, mi riferisco non tanto a un’impossibile definizione di fumetto in sé, quanto alle forme che assume il medium oggi, alle sue strategie comunicative e alle pratiche (e le aspettative) di lettura ad esso legate. Mi spiego: Fastwalkers non racconta una storia, non attraverso una narrazione per immagini almeno (al limite possiamo leggerci il processo delle macchine che hanno elaborato disegni e parole), ma è stampato e diffuso in un volume che raccoglie immagini in sequenza organizzate in layout, in cui il testo è rappresentato all’interno di balloons e didascalie, che utilizza alcuni codici riconoscibili del manga, pubblicato e distribuito da una casa editrice che si occupa anche di fumetti. Per certi aspetti, Fastwalkers è molto più vicino a ciò che viene comunemente considerato fumetto di quanto non lo sia Culto.

Torniamo proprio all’ultimo lavoro di Pellizzon: si tratta di un volume nero, cartonato, in grande formato; anche all’interno delle pagine domina il nero, insieme a disegni tra il grigio e il bianco pallido, come invecchiato; la maggior parte delle tavole sono a tutta o a mezza pagina, insieme ad alcune splash pages; molte di queste sono mute, pochi balloons, vediamo diverse scritte sparse all’interno delle tavole, alcune in una strana calligrafia. Si apre con quelle che sembrano delle piccole statue, dei reperti le cui forme sono consumate dal passare del tempo. L’autore ci mette in guardia rispetto alla lettura del libro: Culto è diviso in capitoli che non necessariamente vanno letti nell’ordine in cui si presentano. Un’altra didascalia ci spiega come il fumetto sia «frutto dell’estrazione di cinque coscienze», cinque personaggi che vengono presentati da pochi tratti (sia grafici che testuali). In sintesi: Culto sembrerebbe essere la raccolta di una serie di ricordi, riflessioni, memorie, prese da cinque personaggi legati tra loro da rapporti diversi. Non sempre questi estratti sono riconducibili a una coscienza specifica e progressivamente capiamo di avere a che fare con un archivio fittizio, un’archeologia di dati realizzata attraverso una tecnologia segreta, forse occulta. La maggior parte dei capitoli è aperta da un ritratto del personaggio da cui viene l’estrazione: un’immagine sfalsata, rovinata e pixellata, come se venisse proiettata su uno schermo da un passato (o un futuro) troppo lontano per avere una definizione migliore.

Il fumetto di Pellizzon mette al centro ciò che, sotto diversi punti di vista, è latente: ciò che emerge dall’oblio, da una memoria umana che per definizione è poco affidabile; il corpo al di là della coscienza e al di là dell’essere umano, la possibilità della sua modifica e del suo smembramento; il passato mitico, il rituale, l’occulto. Questo è vero anche per quanto riguarda il disegno: l’autore fa emergere le figure e le parole dal buio, le storpia, le fonde e le sconvolge; non racconta una storia lineare, ma episodica, fatta di aneddoti e riflessioni; scrive e disegna senza che ci sia sempre una chiara coerenza tra parola e immagine e cambia lo stile di disegno, passando da uno più realistico (in cui risuona il suo Lezioni di anatomia) ad uno più astratto che sembra rifarsi al futurismo e al cubismo, con linee che si sfaldano e che non descrivono forme precise. Culto è un archivio, un’indagine, un assemblaggio di elementi eterogenei che finiscono per confondersi, fino a rendere difficile distinguerli. Anzi, alla fine della lettura viene da chiedersi se siano mai stati davvero separati, dove cominciava uno e dove finiva l’altro. Questa perdita d’identità è la latenza su cui si concentra il libro, che riguarda anche la propria forma: Culto non è un fumetto canonico, si colloca tra il graphic novel e il libro d’artista, tra il racconto e l’archivio, tra la sequenzialità e il racconto non lineare.

Forse ora risulta più chiaro perché ho pensato a Fastwalkers di Ilan Manouach. Quest’ultimo descrive l’opera come «un paesaggio semantico di strati ambientali le cui armonie e dissonanze rivelano la natura aggregata dello scambio di conoscenze nell’era semiocapitalista e illuminano le intrinseche qualità computazionali dei fumetti per giocare con lo spazio latente che si cela nella cognizione del lettore». Al di là del tono altisonante dell’estratto, le affinità sono piuttosto evidenti: anche Fastwalkers è una raccolta di immagini rielaborate, rimasticate, modificate e fuse. È anch’esso il prodotto di un archivio, di diversi database utilizzati per produrre immagini e testi e il risultato ha di nuovo a che fare con ciò che è latente. Il soggetto principale, non a caso, è il corpo, sia nell’opera di Manouach che in quella di Pellizzon: nel momento in cui si affronta la possibilità dell’assenza di coscienza dell’essere umano, ciò che rimane è il corpo esposto, modificato, erotizzato. È una rimessa al centro dell’umano in tutta la sua assenza, l’essere post (oltre) l’umano. Se Pellizzon sperimenta con la fusione delle coscienze, Manouach lo fa con una sua sintesi artificiale, ma i risultati non possono che parlarsi, come potrebbero parlarsi la macchina (fittizia) che ha estratto le coscienze di Culto e le macchine (reali) che hanno realizzato Fastwalkers.

Oltre all’essere umano (e al fatto che lo identifichiamo con ciò che chiamiamo coscienza) i due fumetti riflettono sulle immagini e sulla loro natura. In Culto i riferimenti alla produzione di immagini sono numerosi: fotografie, macchine fotografiche, quadri, ma anche altre rappresentazioni di esseri umani come manichini, bambole, pupazzi, alcuni abbastanza realistici da risultare inquietanti. Siamo davanti a figure riprodotte, fittizie, simulacri di qualcos’altro. Dall’altra parte, i disegni di Fastwalkers rimandano ai manga e agli hentai da cui sono stati generati, manifestando la loro «natura aggregativa». Sembrano suggerire che i disegni, così come i corpi, siano un assemblaggio di elementi, un aspetto latente sotteso a ogni immagine che ci circonda. Uno dei personaggi di Culto che ha lavorato come macellaio di pesce racconta come, nel preparare un alligatore, «dopo aver rimosso anche gli arti e la testa, quello che restava appariva come una sirena maciullata. Le mie mani avevano tramutato quel rettile in una creatura differente». Che le opere generate da A.I. riflettano su come vengono prodotte le immagini oggi è piuttosto evidente ed è al centro di molti degli accesi dibattiti sul tema. Ciò che però Culto e Fastwalkers fanno è anche riflettere sulla natura assemblata del corpo umano. Modificandolo, creano straniamento, ci mostrano come il corpo potrebbe essere, come forse è davvero: un insieme di pezzi tenuti insieme in maniera precaria, momentanea, prima (e dopo) una trasformazione di cui non siamo testimoni. Le immagini del corpo diventano allora un doppio mascheramento, riproducono un’immagine che è già costruita, consolidata e rassicurante. Ma nel momento in cui il ritratto non è fedele, cade anche la prima maschera, con un effetto decisamente perturbante: se il nostro riflesso non ci somiglia, non possiamo che provare profonda inquietudine, ed è quello che succede davanti alle immagini di corpi raccolte in questi due testi.

Tale aspetto ha necessariamente a che fare con la morte: questa si manifesta come assenza dell’umano davanti alla vista del corpo scomposto, straniato, disfatto, fluido. Di nuovo, non possiamo sorprenderci se anche moltissimi dei dialoghi sintetici che troviamo in Fastwalkers hanno a che fare con la morte. Ed è questa la chiave di quell’inquietudine che sentiamo mentre sfogliamo le pagine di Culto: cosa stiamo guardando esattamente? Non sono forse esseri umani sulla soglia della perdita di loro stessi? Di chi è quel corpo? Possiamo ancora definirlo umano? È mai stato davvero umano? Allora acquistano senso anche le statuine antiche: una rappresentazione solo vagamente riconoscibile, in cui è visibile sia il corpo (rappresentato) che il gesto (quello che ha scolpito la pietra), un segnale che emerge dal buio, come quelle immagini sgranate che compaiono sugli schermi all’inizio di ogni capitolo. Non abbiamo gli strumenti per comprendere qualcosa di così lontano, sentiamo solo che ci parla ad un livello che non possiamo capire, come i reperti egizi trovati nella tomba di Tutankamen disegnati da Manuele Fior in Hypericon, che peraltro propone riflessioni simili. La storia si ripete: davanti a quelle statue vediamo noi stessi, ma in una forma così lontana da essere inaccettabile. Riconoscibili invece sono i fiori di iperico sulla salma del faraone, una pianta cui si attribuisce la capacità di scacciare i demoni e conciliare il sonno. Un gesto umano, conosciuto, che rassicura e in qualche modo conforta l’archeologo Carter disegnato da Fior. (fine prima parte)

Rodolfo dal Canto

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