Un uomo a metà. Negli abissi in bianco e nero

“Il meridionalista dell’immagine” è il nuovo saggio di Ludovico Cantisani, incentrato sul cinema e la televisione di Vittorio De Seta. Nato nel 1923 e morto nel 2011, palermitano ma di origini nobiliari calabresi, con titoli come Banditi ad Orgosolo e il rivoluzionario sceneggiato televisivo Diario di un marstro De Seta è stato uno dei padri fondatori del cinema documentario italiano. I suoi cortometraggi girati nel Sud Italia negli anni cinquanta, riscoperti anche grazie agli sforzi di Goffredo Fofi, testimoniano con una forza rara quel “mondo perduto” della civiltà popolare italiana che con il boom economico scomparve per sempre. Sorprese – e deluse – molti la sua virata introspettiva quando, nel 1966, presentò a Venezia “Un uomo a metà”, flusso di coscienza di matrice junghiana su un giovane in crisi, interpretato peraltro da Jacques Perrin, attore e produttore francese recentemente scomparso al quale “Il meridionalista dell’immagine” è dedicato. Quello che segue è un estratto del capitolo del saggio relativo a “Un uomo a metà”.

“C’era qualcosa che non funzionava in me. Stavo male. E mi si poneva un problema di coerenza: se sto così male e devo andare dallo psicanalista, perché fare film socialmente impegnati? Perché non fare, invece, un film proprio sul malessere, un disagio, una nevrosi che era la mia? Ho vissuto e assunto un’introversione assoluta. Tutto sommato è stato un impegno di coerenza, rischioso, sofferto, pagato. Dopo, non ho quasi potuto più fare cinema”. La presentazione di Banditi a Orgosolo, e il plauso critico che aveva suscitato sancendo una prima, significativa consacrazione di De Seta come regista dopo la già celebrata gavetta documentaristica degli anni cinquanta, non aiutò affatto a diminuire il disagio psicologico che il regista, come fu sempre molto aperto a raccontare, si portava dietro dal finire degli anni cinquanta.

Significativo, in questo frangente della vita e della produzione artistica di Vittorio De Seta, fu l’incontro con il noto psicoanalista junghiano Ernst Bernhard, che si era stabilito in Italia alla fine degli anni trenta, in fuga dalla Germania nazista. Fu in realtà tutta la famiglia De Seta ad andare “in analisi”, intorno al 1958: prima il fratello maggiore Emanuele, che era accusato di avere problemi di tossicodipendenza, poi Vittorio e infine la stessa Vera Gherarducci. Prima di andare a girare Banditi a Orgosolo, De Seta aveva chiesto letteralmente il “permesso” a Bernhard, dovendo interrompere per un anno la terapia per realizzare un film in Barbagia.

Fatto slegato dal suo cinema ma enormemente significativo, e attestato da entrambe le parti, fu la circostanza per cui fu Vittorio De Seta, nella sua breve frequentazione con il regista riminese, a consigliare a Federico Fellini di recarsi a sua volta in analisi da Ernst Bernhard, qualche tempo dopo l’uscita de La dolce vita:

“Un giorno eravamo nella sua 500 bianca in un piccolo largo, sopra il Tritone. Ci mettemmo a parlare e lui diede fondo al suo malessere. Davanti a noi si apriva la prospettiva accattivante di via Gregoriana, dove abitava Bernhard. Un segno del destino? Ricordo come fosse adesso. Mi viene spontaneo dirgli: ‘Perché non vai da Bernhard?’”

Fellini e De Seta si persero di vista di lì a poco, senza attriti, come capitò a molti altri rapporti umani e professionali intessuti dal regista palermitano nel periodo. “Da quel momento in poi, tutti e due lavorammo ad un film d’autoanalisi [anche se] non ce lo siamo mai detto”: Fellini a 8 e ½, De Seta a Un uomo a metà. La frequentazione con Ernst Bernhard fu piuttosto significativa per l’attività creativa di Fellini, come testimonia, oltre che i possibili echi junghiani riscontrabili nel suo cinema da 8 e ½ in poi, anche il visionario Libro dei sogni, una sorta di personalissimo Libro rosso del regista riminese, il diario in cui si appuntò per molti anni, a parole e a disegni, i sogni fatti notte per notte.

La frequentazione con Ernst Bernhard e il contatto con la psicologia e la teoria di Carl G. Jung fu essenziale e life-changing anche per Vittorio De Seta, sia su un piano artistico che su un piano umano. L’influenza della psicoanalisi junghiana fu a suo dire decisiva per la sua vita, nel tirarlo fuori definitivamente da ogni ombra di marxismo e materialismo e avvicinarlo, in una maniera mai fideistica, alla religione. Nella filmografia di De Seta, la testimonianza più inappellabile dell’influenza della psicoanalisi junghiana è inevitabilmente Un uomo a metà del 1966, che si apre con una dedica a Bernhard che era scomparso l’anno prima e che si chiude esplicitamente con una citazione di Jung.

Con Un uomo a metà, esempio di cinema dalla modernità frastagliata e al tempo stesso molto archetipico, Vittorio De Seta porta la realizzazione del film a una dimensione di autentica autoterapia. Preparato per cinque anni dal regista, la scelta dello stesso nome del protagonista di Banditi a Orgosolo fa emergere una vicinanza tra le due opere maggiore di quella che si potrebbe cogliere a un primo sguardo: laddove il primo film di De Seta era ambientato nel cuore della Barbagia sarda il secondo inquadra e psicologizza ambienti quali una clinica psichiatra, boschi, villette e case di campagna mai troppo distanti dalla città.

Se le riprese dei cortometraggi e di Banditi a Orgosolo erano state avventurose e pionieristiche, quelle di Un uomo a metà, il primo film con cui De Seta ebbe a che fare con attori professionisti, furono delicate e complessissime da un punto di vista personale, emotivo. “Un uomo a metà è stato realizzato in una forma di trance”, confidò De Seta a Goffredo Fofi e Gianni Volpi. “Ci sono cose che ho scoperto dopo anni. Quando Michele è nel parco e si avvicina alla coppia, la ragazza è riversa, con gli occhi spalancati, come morta. Anche la Occhini ha un’inquadratura simile. Ed è la stessa, alla fine, del fratello morto, riverso accanto alla motocicletta e alle fiamme. Quando giravo, però, non sapevo minimamente dell’esistenza di questo gioco di rispondenze”. Un uomo a metà fu, nelle parole del suo regista, “un film di pura soggettività. In tutto il film non c’è una sola immagine che non sia vista in soggettiva dal protagonista, che è un nevrotico”. Per poi concludere: “Un uomo a metà è stato come un’analisi in atto filmata. La nevrosi domina il film, ne detta la legge. Tanto che con questo film non riesco a stabilire un rapporto equilibrato. Non so che cos’è in verità, se è sbagliato, se funziona, anche se, nel senso che dicevamo, è un po’ insopportabile”. Le musiche di Un uomo a metà vennero composte da Ennio Morricone, già allora affermato come uno dei principali compositori per il cinema. Secondo la testimonianza di De Seta, Morricone considerò quella di Un uomo a metà come una delle sue migliori colonne sonore: certo è che le immagini di De Seta e Di Palma si sposano perfettamente con le sue note, creando calibrati effetti di psicologizzazione ed estraniazione delle scene.

Al pari di Banditi a Orgosolo anche Un uomo a metà venne presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1966 ma, benché Jacques Perrin venne premiato con la Coppa Volpi come miglior interprete maschile, il film venne accolto catastroficamente da parte della critica, che lo cassò in maniera quasi unanime creando per De Seta un autentico trauma. Prima di arrivare in sala vi furono alcuni rimaneggiamenti al montaggio, ma Un uomo a metà ebbe un risultato scarso anche ai botteghini. Oltre alla Coppa Volpi, l’unico altro riconoscimento significativo tributato al film durante quell’edizione della Mostra del Cinema di Venezia fu il premio della rivista Filmcritica. 

Fra le molte critiche negative a Un uomo a metà, quella forse più inaspettata fu quella di Guido Aristarco dalle pagine di Cinema nuovo che lui dirigeva, che fondamentalmente bocciò il film, dopo aver apprezzato il percorso da documentarista di De Seta e aver premiato a nome della rivista il precedente Banditi a Orgosolo come miglior film visto a Venezia. Gli unici due nomi autorevoli che invece lodarono Un uomo a metà furono Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Un uomo a metà dimostra bene come il cinema di De Seta abbia saputo tratteggiare non solo la fine della civiltà contadina e di tutto un concetto di Sud, ma abbia attraversato anche, più sottotraccia, dei mutamenti politici e ideologici anch’essi significativi nel colpire la Sinistra europea a ridosso del boom economico. Del resto rispetto ad altri registi o critici a cominciare dallo stesso Guido Aristarco, De Seta era stato ufficialmente comunista solo per un anno, il 1947: la sua intermittenza ideologica lo rese più sensibile di altri nel cogliere la parzialità di alcuni modi di strutturare l’interpretazione dell’arte e del mondo, e di questa presa di coscienza anche il suo cinema risentì.

Raccontare una nevrosi dal punto di vista soggettivo del nevrotico era qualcosa di mai tentato prima: l’unico antecedente indiretto poteva essere il Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1964, che però metteva in scena il punto di vista di una nevrotica oggettivizzato sull’ambiente che la circonda, sui suoi colori irreali, nei fumi tossici che si sollevano dalle fabbriche della sua Ravenna amministrate dal marito che la trascura oltre che nei suoi stessi gesti e parole. La nevrosi e in generale il malessere psicologico attraversa Un uomo a metà non solo a livello del contenuto e della forma, ma anche da un punto di vista stilistico e linguistico: con un montaggio a volte convulso, spesso tagliente, che non si imbarazza a procedere in maniera dislineare per seguire associazioni mentali e mettere in scena in maniera fluida i pensieri del protagonista, i suoi ricordi reali e le sue immagini ossessive come quella del volto del fratello morto, piuttosto che gli eventi concreti che accadono a questo Michele.

A fronte di una ricerca visiva così ricca e così evidente, sorprende il fatto che Un uomo a metà sia stato sempre escluso dal canone tradizionale dei “grandi” film italiani degli anni sessanta, e non venga ricordato nemmeno per la sua regia. Alcune inquadrature, soprattutto quelle relative al confronto tra Michele e il fratello sotto i portici del casale di campagna, ricordano molto Persona di Ingmar Bergman, che però era uscito in Svezia negli stessi giorni in cui il film di De Seta veniva presentato a Venezia, per essere poi distribuito a livello internazionale solo del 1967: in Un uomo a metà si può quindi cogliere una sorta di bergmanismo prima di Bergman, e non è un’esagerazione. Tuttora, nella storia del cinema nostrano, Un uomo a metà resta uno dei pochissimi film che abbiano voluto autenticamente tentare l’esperimento di una mimesi cinematografica del pensiero umano: e anche se i dibattiti psicoanalitici tra le diverse scuole non rivestono più l’attenzione di una volta, e quell’autofiction che domina nelle nostre narrative contemporanee abbia scelto vie meno simboliche e forse anche meno sincere, basta questo dato stilistico a confermare la prepotente attualità del film.(Ludovico Cantisani)

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