
C’è forse anche qualcosa di furbo, nella modalità di messa in scena di questa catastrofe, di queste criticità – e non mi riferisco solo a Black Panther. Sarebbe strano altrimenti, non trovate? Film che riscuotono un successo di pubblico così inspiegabilmente universale, non possono prescindere da un certo margine di manipolazione indiretta dell’audience. È a un filosofo del calibro di Jacques Derrida che va riconosciuto il merito di aver parlato apertis verbis di una vera e propria “seduzione apocalittica” – quella millenaria tendenza, per cui le masse vanno sempre dai profeti di sventura, e sono tanto più soddisfatte quanto più queste rivelazioni di catastrofi future e/o di complotti presenti vengono strumentalmente investite di un’aura di segretezza, che fa sentire privilegiati chi ne è venuto a conoscenza. Applicata al cinema, la “seduzione apocalittica” ha trovato un critico e un interprete privilegiato nella persona di Enzo Ungari – critico marxista degli anni settanta, adesso in larga parte dimenticato nonostante la sua partecipazione alla sceneggiatura de L’ultimo imperatore. Nel cuore della Contestazione, Ungari concepì un libretto originalissimo di critica cinematografica – l’Immagine del disastro, in cui la componente testuale si assomava a un efficace collage di fotogrammi e locandine. È a questo vecchio testo di critica che ci conviene rivolgere per capire a fondo il patto implicito che i cinecomics offrono ai loro spettatori, in cambio di due ore di divertimento e azione.
“Fin dalla sua nascita il cinema ha sempre dimostrato una vera e propria vocazione per rappresentare la calamità, la sciagura, la catastrofe e la distruzione”, si legge infatti nelle prime pagine dell’Immagine del disastro. “La sala cinematografica, doppio oscurato dello stadio, propone, con sempre maggiore frequenza, immagini del disastro, al tempo stesso inquietanti e consolatorie”. Il genere catastrofico per eccellenza è quello della fantascienza apocalittica, di cui i cinecomics rappresentano la più significativa applicazione ai fantasmi del contemporaneo. Ma “una volta riconosciuto che la fantascienza si sviluppa a partire da un disagio storico e che offre, ma solo a chi ne va in cerca, la possibilità illusoria di cambiare di mondo anziché quella reale di cambiare il mondo, resta il fatto che oggi la rappresentazione di questo disastro… approda massicciamente sugli schermi”.
E non è finita – quando Ungari scriveva, non era uscito nemmeno il primo Superman con Cristopher Reeves, eppure le sue parole sono attualissime, e applicabili senza retorica agli stessi cinecomics contemporanei. “La rappresentazione del disastro allude oggi a un esterno, si offre come riverbero, ammicca allo spazio sociale, colto nella sua crisi. In mancanza di un progetto di cinema globale che possa dare a questa crisi una risposta coerente sotto forma di una mitologia positiva”. In conseguenza a questo bisogno di nuove grandi narrazioni collettive, e possibilmente consolatorie, “gli schermi si affollano di metafore disorganizzate che rimandano comunque a quello che sembra essere il problema di fondo della società dello spettacolo: come trattare, rappresentare, travestire l’irrappresentabile di ieri, tutti quegli aspetti della realtà che per varie ragioni (non ultima, anzi forse la prima, l’inarrestabile espansione dei mezzi di comunicazione di massa) non possono più essere soggetti a una rimozione”.
Torniamo all’11 Settembre. Già all’indomani della strage, i più fini interpreti dei mezzi di comunicazione di massa – Baudrillard ed Umberto Eco, per fare i due nomi più celebri – avvertirono i loro lettori che si era verificato un mutamento abnorme, nelle dinamiche comunicative del terrorismo. Così come la recente Guerra del Golfo era stata la prima guerra trasmessa in diretta e, per quanto possibile, in mondovisione, l’11 Settembre aveva inaugurato una nuova era nella storia del terrorismo che, dopo il suo glorioso battesimo ai tempi dell’Illuminismo per non dire dei Vecchi della Montagna, con le Twin Towers si avviava a detenere una potenza mediatica insperata. Uno dei testi di Eco poi raccolti in A passo di gambero faceva luce proprio su questo: per la sua natura di evento radicalmente tragico, l’attacco alle Torri Gemelle imponeva alle reti televisive di tutto il mondo una continua ritrasmissione, che ha aumentato il potere e le “capacità di contrattazione” di Al-Qaeda molto più di quanto avrebbe rappresentato il mero attacco in sé, benché scagliato nel cuore dell’America. Nel ritrasmettere le immagini delle Torri Gemelle in fiamme, per giorni e settimane dopo l’attacco, i media non hanno fatto altro, ufficialmente, che rispettare il loro “obbligo di mandato”, quello di informare la popolazione dei grandi eventi che si consumano ogni giorno: ma hanno altresì nutrito quella componente catastrofica e quasi estetica che si diletta nel contemplare le tragedie altrui e, soprattutto, hanno reso la rete di influenza di Bin Laden di gran lunga più capillare e universale di quanto potessero ottenere i semplici attacchi o il mero potere economico.
Ecco, il cinema dei supereroi nella sua forma contemporanea è una reazione proprio a questo strapotere mediatico del terrorismo. Che i cinecomics continuino a flirtare con l’immaginario legato all’11 Settembre e alle sue macerie lo testimonia anche il finale dell’ultimo Batman con Robert Pattinson, in cui l’Uomo Pipistrello soccorre gli abitanti di una Gotham inondata, sporco di fango e carico di stanchezza proprio come nelle immagini dei soccorritori del 2001 accorsi sul posto quando le due Torri erano ancora fumanti, e in piedi. Quello del “similia similibus solvuntur” è un principio standard della chimica, ma nel mondo dei fatti è vero anche che fenomeni speculari spesso si nutrano a vicenda, e già la teologia ebraica aveva ben chiaro il concetto che ad ogni salvatore o Messia è necessaria una crisi, perché si possa manifestare. È in questo nucleo che si possono riconoscere le criticità e se vogliamo anche le aporie, della narrazione supereroistica.
A tal riguardo è interessante andare a recuperare, dall’appendice al volume Quello sei tu recentemente pubblicato da Lindau, un’intervista che il grande mitografo Joseph Campbell concedette in occasione della Pasqua del 1979 al New York Times Magazine, in cui si parlava anche del cinema di fantascienza. Preso atto che “la struttura mitologica che un tempo sorreggeva un’interpretazione biblica dell’universo viene messe fortemente in discussione dall’esplorazione dello spazio” – era ancora fresco il ricordo della diretta sull’allunaggio di Neil Armostrong, del luglio di dieci anni prima – il cinema di fantascienza si presta facilmente a mantenere tracce del contraddittorio processo di secolarizzazione che l’esplorazione dello spazio ha contribuito ad accelerare. Dapprima Campbell commenta i film apocalittici in chiave generica, che vengono ricondotti dal mitografo a un rifiuto inconscio della nuova era – “ci odiamo così tanto che proviamo piacere nella distruzione degli altri” -, poi il discorso si sposta sulla versione fantascientifica dell’archetipo messianico, su quei film che mostrano la Terra essere salvata dagli extraterrestri.
Campbell anche su questo genere di “fantascienza salvifica” è tranchant: simili narrazioni, al pari del fenomeno degli avvistamenti UFO già discusso da Jung in Un mito moderno, testimoniano una sorta di infantilismo inconscio, un bisogno di Delega trasposto su un piano cosmico. Per quanto i filosofi possano sgolarsi nel proclamare la morte di ogni dio, l’universalità dell’istanza messianica di un salvatore che magicamente o miracolosamente risolva ogni problema del mondo resta inscalfita. Il cinema di fantascienza al pari dei cosiddetti avvistamenti UFO dimostrano quanto ostinatamente ancora “le persone cerchino le tracce di visitatori provenienti dallo spazio”, è la conclusione di Campbell, semplicemente perché “credono che la nostra salvezza viene da lì, mentre l’era spaziale ci ricorda che deve sorgere dentro di noi”.
Spostandoci dal piano cosmico a quello sociale, ecco che troviamo il cinema dei supereroi, che spesso ha introdotto i propri protagonisti adoperando delle vere e proprie iconografie cristologiche, soprattutto nel caso di Superman e dell’Iron Man di Avengers: Endgame. Nel loro messianesimo, nel loro salvare il mondo prevedibilmente “a trenta secondi dalla fine”, queste figure rappresentano una risposta diretta, e puramente mitica, alle ansietà che gli attentati dell’11 Settembre avevano introdotto, nella mentalità comune americana e occidentale: e c’è una sinistra ironia nel ricordo della strage del cinema di Aurora, dell’estate del 2012, quando un ventiquattrenne sparò al pubblico che in sala stava vedendo l’ultimo film di Batman a firma di Christopher Nolan, ricco di riferimenti all’11 Settembre e costellato di attentati ai danni dell’inerme – e immaginaria – città di Gotham.
Queste corrispondenze potrebbero di per sé essere indolori, e mere analogie strutturali per quanto fondate, se non fosse che portano con sé ulteriori risvolti politici. “Diversi anni fa ho detto che pensavo fosse un segnale preoccupante che centinaia di migliaia di adulti facessero la fila per vedere personaggi creati cinquant’anni prima per intrattenere i dodicenni. Sembrava uno sfruttamento della volontà di fuga dalle complessità del mondo moderno e della nostalgia per l’infanzia. Mi sembrava pericoloso, sembrava un’infantilizzazione della popolazione”. Queste dichiarazioni, datate 2020, hanno riacceso l’attenzione mediatica su Alan Moore, tra i padri putativi del fumetto supereroistico contemporaneo, autore o co-autore di un gran numero di graphic novel che hanno fatto la storia del genere, ma che lui ha presto ripudiato, in virtù di una visione del mondo che oscilla tra l’anarchismo politico e la gnosi religiosa. Ancora più interessanti erano alcune sue affermazioni di qualche anno prima, a ridosso della Brexit. “Potrebbe essere stata solo una coincidenza, ma nel 2016, quando gli americani hanno eletto un satsuma nazionalsocialista e la Gran Bretagna ha votato per lasciare l’Unione Europea, sei dei dodici film con i maggiori incassi erano film di supereroi. Non voglio dire che una cosa abbia provocato l’altra, ma credo che siano entrambi sintomi dello stesso problema: un rifiuto della realtà e una brama di soluzioni semplicistiche e sensazionalistiche”.
L’immaginario non è mai innocente. Ha sempre le sue implicazioni che, almeno nel caso dell’immaginario collettivo, sono generalmente palliative, o negative, il che a volte è lo stesso. La critica dell’immaginario – una prassi, più che una disciplina, inaugurata da Roland Barthes e da Umberto Eco a metà Novecento, e seguita fra gli altri dallo stesso Enzo Ungari -, sia pure nel suo carattere fondamentalmente passivo, che si limita a registrare aspetti contraddittori e problematici nelle narrazioni popolari, è pur sempre un punto di fuga rispetto a certa ipersemplificazione che sembra andare per la maggiore, e non solo nel mondo dello storytelling, anche e soprattutto nel mondo dell’informazione. D’altro canto però, a volte gli stessi fumetti e film di supereroiriescono ad operare, metanarrativamente, operazioni di critica dell’immaginario: è il caso, ad esempio, di Watchmen, leggendaria graphic novel co-scritta dallo stesso Alan Moore, adattata a film da Zack Snyder e più recentemente espansa in una miniserie a firma di Damien Lindelof.
Un mito non ha mai una sola faccia – Giano Bifronte è l’archetipo e l’epifenomeno di ogni mito. Se è vero che i cinecomics corrispondono, con discreta approssimazione, a un “mito moderno”, anzi contemporaneo, inevitabilmente essi trasudano di molte delle criticità del presente, ma anche di alcune delle sue potenzialità. Proprio per questo è affascinante cercare di rinnovare, sugli oggetti che l’oggi e il quotidiano ci porgono sotto gli occhi, la critica dell’immaginario di veneranda memoria: nella benefica illusione di capire qualcosa di più sul nostro mondo, cogliendo la società nell’atto stesso di spogliarsi, in quel gioco di specchi che rappresenta il brivido di ogni narrazione. Ma chi sarà Gige, chi Candaule? (Ludovico Cantisani)
Bellissimi approfondimenti. Grazie!
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