
(Il testo che segue è il secondo dei cinque paragrafi della voce “Fumetto” originariamente redatta per il quarto e ultimo volume dell’opera enciclopedica Cultura del cibo, diretta da Massimo Montanari, Françoise Sabban e Alberto Capatti per Utet Grandi Opere, 2015).
DUE. Dove l’ingordigia è l’estasi della fame
Max e Moritz sono gli ispiratori diretti dei Katzenjammer Kids creati nel 1897 da Rudolf Dirks, tedesco emigrato a New York. Hans e Fritz, conosciuti in Italia come Bibì e Bibò, saranno a loro volta i capostipiti di una lunga serie di bambini terribili che popoleranno le pagine dei giornali nordamericani nell’età d’oro della stampa quotidiana.
Così come prende forma negli Stati Uniti, in un singolare slancio di sperimentazione selvaggia e immediatezza comunicativa, il fumetto riporta la difficile, potenzialmente violenta, coesistenza delle classi e delle etnie, l’espansione caotica delle metropoli urbane e un mondo rurale dai confini incerti e in parte ancora selvaggio.
La collocazione effimera negli inserti illustrati, le ragioni del mercato e la “bassa definizione” mettono le prime strisce nella singolare condizione di essere straordinariamente diffuse ma, allo stesso tempo, abbastanza marginali da sfuggire all’egemonia estetica e ideologica del romanzo, proprio nel momento in cui questa forma si consolida come specchio critico della società moderna. Nei comics, per definizione, non si fa mai sul serio, si ha il diritto di essere stupidi e – effetto in latenza eversivo – di mostrare quanto tutto (la società, la natura umana…) sia stupido. Come nella narrativa, anche nei fumetti il cibo ha una sua essenziale funzione naturalistica e una altrettanto ovvia funzione connotativa, che riguarda sia i singoli personaggi che la loro appartenenza sociale. Nella rappresentazione di una società che produce abbondanza e nella quale nondimeno esiste la fame, dove l’ascesa sociale oscilla tra opportunità e miraggio, molti autori non esitano a sfruttare quella sorta di diritto all’eccesso al quale la loro arte marginale sembra autorizzata. In queste più o meno consapevoli satire del darwinismo sociale, il cibo prende spesso le forme dell’iterazione e dell’ossessione compulsiva.
Nell’ottobre del 1909, George Herriman crea la striscia Baron Mooch (“Barone Scroccone”), il cui semplice canovaccio è costituito dai tentativi del grasso protagonista di ottenere gratis tutto quello di cui abbia voglia, soprattutto il cibo. Dopo due mesi la serie si esaurisce, ma nel gennaio 1916 un nuovo barone raccoglie il testimone, e le cose si fanno più interessanti e complesse. Baron Bean (che suonerebbe quasi come «barren bean», espressione gergale per testa vuota) incarna una figura tipica nell’America del primo Novecento: il nobile decaduto, o il sedicente nobile, che per sbarcare il lunario sfrutta il proprio ascendente sulla borghesia arricchita ma bisognosa di legittimazione. Sorta d’incrocio tra Micawber e Charlot, Baron Bean ostenta un’affettata eleganza, è sempre accompagnato e servito dal fedele valletto Grimes, e lo vediamo passare gran parte del suo tempo a caccia di un uovo, seduto a una tavola vuota, oppure al bancone di qualche economico ristorante nella speranza di un attimo di distrazione da parte del cameriere.
Lo scontro tra il mondo sognato dal Barone e quello reale avviene sempre sul piano del cibo. Herriman rappresenta più spesso l’attesa del pasto che il cibo vero e proprio, e la figura dell’aristocratico spiantato, non sapremo mai se autentico o meno, gli permette d’indugiare sui rituali, mentre racconta la fame. Di un realismo crudo quanto sottile è la sequenza multietnica dei cuochi che si avvicendano al servizio del Barone, mentre nella varietà degli animali riluttanti ad essere mangiati si colgono gli elementi dell’assurdo che l’autore sta già sperimentando nella sua serie principale, Krazy Kat.

G. Herriman, Baron Bean, striscia quotidiana pubblicata dal 5 gennaio 1916 al 22 gennaio 1919. La casa editrice IDW sta procedendo alla ristampa in volume delle strisce.
Quindici anni dopo, Elzie Crisler Segar crea come comprimario di Popeye (Braccio di Ferro) l’espressione più celebre e compiuta del cercatore compulsivo di cibo: J. Wellington Wimpy, conosciuto in Italia col nome di Poldo Sbaffini. Il legame di questa serie con il cibo è fin troppo noto. Gli spinaci di Braccio di Ferro e la loro influenza sulle abitudini alimentari degli americani sono proverbiali, ma il merito è più della serie animata dei fratelli Fleischer, perché nel fumetto originale la mitica verdura ha avuto un utilizzo parziale e tardivo. Wimpy ha invece dato il nome a una grande catena di fast food, ed ecco che i due amici – l’onesto e sincero Braccio di Ferro e il truffaldino Poldo – si trovano l’uno icona dell’alimentazione salutista (o pretesa tale) e l’altro dello junk food. Ma il Thimble Theater, questo il vero nome della striscia, è stata anche una divertita e spietata messa in scena dell’avidità umana, almeno fino a quando Segar ne ha tenuto le redini. Come nei baroni di Herriman, rimane visibile in Segar la radice dickensiana, ma privata di quella sostanziale fiducia nell’intima bontà dell’essere umano che fonda l’etica dello scrittore inglese (e se Bean può ricordare Micawber, Wimpy è più simile allo Skimpole di Casa desolata). Il miglior amico di Popeye è furbo, affettato, pigro, infantile, codardo e disposto a tutto pur di soddisfare il suo appetito. Rappresenta nella sua forma più pura, e tanto plateale da essere disarmante, un’ansia di possesso che Segar, disegnando negli anni della Grande Depressione, riesce a rendere universale. Nella tavola domenicale del 1° dicembre 1935, Wimpy è appena stato costretto a cedere il suo ristorante, ma, prima di andarsene, riempie i suoi «pantaloni di gomma» con decine di hamburger («gioielli di bovinità»). Wimpy simula una pancia enorme per portare via gli hamburger sotto gli occhi di Popeye e del nuovo cuoco, quindi fugge divorando i panini così che, una volta raggiunto, è davvero grasso. «Li ho mangiati tutti, non possono provare la mia colpa, quindi la mia coscienza è pulita»: nel disarmante sillogismo che racchiude la morale del personaggio, il cibo e la voracità appaiono come la più immediata delle metafore di un’ansia predatoria e dell’etica che essa produce. Ma l’inganno dello scroccone è soprattutto grafico e riposa nella perfetta equivalenza visiva delle due pance di Wimpy, quella davvero piena di panini e quella che li nasconde, mentre l’espressione serafica del volto dissimula il suo desiderio incontrollabile.

Questo desiderio è tanto un motore quanto un destino, mentre appetito, fame, voracità sono concetti diversi che finiscono per collassare uno sull’altro, per contenersi a vicenda fino a diventare indistinguibili. Può infatti accadere nel fumetto, come in Rabelais, che l’ingordigia sia l’estasi della fame, e che il racconto di entrambe – del grumo di significato che insieme costituiscono – sia affidato all’iperbole, la stessa figura retorica che stimola Obelix, il comprimario di Asterix, a ingurgitare cinghiali su cinghiali in una bulimia mai sazia che, come per gli aristocratici di una volta, è anche attestazione di forza. Personaggi come Wimpy e Obelix sono abbastanza ambigui da tenersi sul confine tra l’appetito gioioso e terrificante di Pantagruel e quello domestico dei mille Sancho Panza che popolano la storia del fumetto. Il dramma vero della relazione con il cibo si svolge probabilmente altrove, davanti agli occhi e nelle bocche dei bambini. (Alessio Trabacchini)

Prossimo episodio: Dove si mangia il mondo o se ne viene mangiati