
Suona un po’ come American Pie: se fosse davvero una pietanza non sarebbe altrettanto buona da mangiare, ma non è l’ennesimo supplizio inflitto al nostro piatto più internazionale e men che mai alla nostra dignità di spettatori. Licorice pizza è un signor film e il suo titolo richiama i vinili-vuoi perché pare che esistesse una catena di negozi di dischi, vuoi perché la liquirizia è nera e la pizza è tonda, proprio come il vinile. E avrebbe senso; scavando nella trama, ne avrebbe molto. Per quanto ci riguarda in questo momento è l’adorabile ultima fatica di Paul Thomas Anderson, che saremo brevi e probabilmente scontati a definire molto di più di una storia d’amore. Per lo meno una storia d’amore ben raccontata, mai inscatolata nel punto di vista dei diretti coinvolti; un amore poroso, fatto di sentimenti non troppo definiti, di nessuna etichetta, di emozioni del tutto permeabili ai contesti-e ce ne sono parecchi-dove vengono vissute. La prima grandezza del film, interpretato da un cast davvero impeccabile (o è la direzione a essere magnifica?) è proprio questa. Gary è innamorato di Alana, 10 anni più grande di lui, ebrea, senza un preciso progetto per il proprio futuro. Lui è un ragazzino precoce e brillante, ma pur sempre un quindicenne che tira dentro alla propria vita la sua lady friend, per il semplice desiderio di averla vicina (che cos’è poi l’amore?). Gli equilibri sono chiari sin dalle prime sequenze e mai e poi mai la direzione di Anderson, che tanto bene mostra la psiche di grandi e piccini senza perdersi in troppe spiegazioni, si sbilancia nel raccontare come stanno le cose- sempre sia lodata la scuola americana e le lezioni di letteratura che si dice abbia preso addirittura da David Foster Wallace. Gary e Alana corrono per tutto il film, a perdifiato, e finiscono per corrersi incontro: solo alla fine lei dice I love you Gary, forse senza neanche pronunciarlo davvero. Due giovani personaggi che corrono incontro alla vita, una scelta magnifica per raccontare un tempo di entusiasmo diverso da questo, in cui lasciamo indolenti che le cose vengano a noi; una scelta dalla quale conseguono anche i notevoli accorgimenti tecnici ai quali il regista ci ha abituati negli anni (ci ricordiamo tutti, vero, il lungo piano sequenza di apertura di Boogie Nights?), virtuosismi della camera da presa e della fotografia che Anderson sfodera sin dall’inizio, come fa del resto con un elemento concreto carico di simbolismo e di possibilità, un elemento che torna durante tutto il film: lo specchio. Le avete contate le scene in cui i protagonisti si vedono riflessi? Io no e vado a memoria, ma anche dopo una sola visione posso dire che sono molte, tante da convincermi a scrivere un pezzo di lunedì, che esce di giovedì, purché sia a braccio e senza cadere nella retorica, senza volere ragione per forza, che di critici cinematografici la città e la rete sono piene. Alana si cerca, è vero, forse Gary la aiuta a trovarsi, in qualche modo. Specchiarsi è ovviamente riconoscersi, volgere lo sguardo a sé. Ma aldilà delle facilonerie psicanalitiche, in senso lato lo specchio è anche un modo di vedersi nel mondo, immersi nella realtà. Riflette il volto e ciò che lo circonda.
Negli specchi di LP (toh, guarda un po’) c’è la California del 1973 che si riflette nella crisi petrolifera e nelle code per rifornirsi alle oil station, nei nuovi mestieri legati al marketing che cavalcano un mercato florido, il nascente culto del benessere e la convinzione così americana che tutto possa diventare business. E poi le dipendenze, anche se non ci sono tossici e fricchettoni erbaioli, ma solo gente-Gary per primo- che festeggia il ritorno del flipper dopo la sua messa al bando. In una lettura facile facile, ci sono per lo meno tre specchi fondamentali nella storia e tutti riflettono il volto di Alana poiché è lei, ancor meno incasellabile di Gary, ancora più strana, con quei dieci anni in più di lui, così affascinante con il naso ebreo e il suo caratteraccio, così indecisa tra fare la ragazzina, vendersi a un divo del cinema o mettersi in politica, è lei a rispecchiare le possibilità infinite e forse un po’ patinate del tempo, quella superficiale spacconeria medio borghese che cela un’insicurezza esistenziale in costante ricerca di conferma e affermazione e che a volte diventa aggressiva. Così la vediamo offrire svogliata lo specchio agli studenti in fila nel porticato per il servizio di foto scolastiche del quale è dipendente; la osserviamo guardare la strada concentratissima (ma è noi che sta guardando ) nel retrovisore alla guida di un camion in fuga da un volubile e violento produttore al quale lei i ragazzi hanno tirato un tiro mancino; e infine la ammiriamo dentro alla specchiera del ristorante, spettatrice degli insospettabili sentimenti che il consigliere Wachs tradisce per onorare la propria corsa al potere. Vi sono altri cento momenti dove i personaggi ci guardano da una superficie riflettente, ma direi che questi tre bastano a raccontare il film, il mondo di Alana e la sua corsa esemplare per entrarvi a pieno titolo. Non possiamo correre con lei? Rimedieremo cantando dalla poltrona ogni singolo pezzo di quella bomba di colonna sonora che accompagna la sua storia. E per una volta, usciremo dal cinema felici. (Virginia Tonfoni)