Ciao e benvenutə, questo è il primo episodio di Fushigi no Manga, la rubrica che terrò per qualche tempo su “Le sabbie di Marte”. Essendo appunto questo il primo episodio mi sento di dover fare una piccola premessa. Quando pensavamo alla rubrica prima e al suo nome poi, io e Miguel che mi ha coinvolto in quest’avventura cercavamo qualcosa che restituisse tanto la fascinazione che proviamo per il fumetto giapponese quanto il caleidoscopio di forme che può assumere e di cui è facile accorgersi non appena si comincia a scavare un po’ più a fondo dell’ultimo successo. Fushigi, in giapponese, ha una doppia valenza: vuol dire “meraviglioso”, ma anche “misterioso” o “insolito”. Abbiamo subito capito che era il titolo giusto, con la potenzialità di farci da guida nella scelta dei fumetti che vi proporremo: cose strane, magari inusuali o dimenticate, qualche volta poco conosciute, che abbiano fatto capolino sulla scena con la timidezza dei giovani talentuosi oppure che siano sepolte tra gli scaffali da un po’. Cose belle, soprattutto.
C’è tanta attenzione per il manga in questo momento, ma, come spesso accade quando l’interesse del pubblico si polarizza d’improvviso creando o facendo emergere fenomeni di massa, all’intensità dello sguardo non corrisponde quasi mai altrettanta profondità né un’adeguata visione d’insieme. Ecco allora, l’intento di Fushigi no Manga non sarà magari di approfondire, ma di allargare sì. Di puntare il dito volta per volta su qualcosa che sia, in effetti, “meraviglioso” ma anche “insolito”. Di raccontarlo.
Uso la parola raccontarlo non a caso: senza la pretesa programmatica di tenere una forma fissa, senza alcuna velleità di proporre affondi critici che meglio si adatterebbero ad altri spazi e ad altri pubblici, Fushigi no Manga sarà perlopiù una raccolta di racconti personali, di storie di e sui fumetti che per me sono stati e sono, appunto, meravigliosi. Magari catturano anche te, l’entusiasmo è osmotico. Quindi eccoci qua, fine della premessa. Credo che il modo migliore di iniziare sia con Narutaru. Buona lettura!

La nostra storia ha inizio nel catalogo di Manga San, quel calderone fondativo che era la collana di manga d’autore di Kappa Edizioni. Tantissimi capisaldi del manga contemporaneo hanno visto per la prima volta il loro nome su un albo italiano nelle copertine di quei volumi grandi e costosi (per l’epoca). Mohiro Kitoh no, lui in Italia c’era già arrivato. Anche se io non lo sapevo. Ma è bastato il primo albo di Il nostro gioco – Bokurano (poi tristemente rimasto incompiuto) a spingermi verso una ricerca più attenta: c’era qualcosa di dolorosamente magnetico in quella rappresentazione di un’infanzia disperata, abbruttita, tradita e rovinata dal mondo ma al contempo in qualche modo pura, visceralmente trasparente. Che Kitoh fosse da tenere d’occhio mi parve subito abbastanza chiaro, anche se non avevo idea che ci fossero già altre sue storie tradotte. Per me era tutto nuovo. Un anno dopo l’inizio di Bokurano, era il 2007, Star Comics si apprestava a (ri)pubblicare in volumi Narutaru.
Dico ripubblicare perché a ben guardare anche Narutaru c’era in parte già. Dal 1999 veniva stampato un capitolo alla volta dentro “Kappa Magazine”, mi pare la più longeva ma di certo la più importante rivista antologica di manga che l’Italia abbia mai visto. E su Narutaru si sentivano strane voci: si diceva che era eccessivamente cruda, che aveva addirittura costretto Star ad aggiungere la dicitura “dedicato a un pubblico maturo” nella copertina della sua antologia, che in Francia la sua pubblicazione aveva scatenato un casino pazzesco, che la versione in volume era stata pesantemente modificata dall’autore rispetto alla prima serializzazione su rivista con l’effetto di renderla – se possibile – ancora più estrema. Allora non sapevo se una o più di queste storie fossero vere, ma la curiosità e il senso di sfida, sorrette dalla stima per l’autore e da una certa mania di completismo che mi accompagna tuttora, non mi fecero indugiare di fronte all’acquisto.
L’inizio di Narutaru era strano forte, lo è tuttora, soprattutto se ci si aspettava quella storia ostica di cui tanti parlavano. Il tratto era quello un po’ incerto, dinamico all’inverosimile, un tantino “anni ’90 ma fatto bene”, del Kitoh che conoscevo. Il tono invece no. Bokurano inizia dritto per dritto con dodici tra ragazzini e ragazzine cui viene affidato il compito di salvare il mondo sconfiggendo altrettanti mostri giganti; per farlo devono pilotare a turno un robottone ma il pilota, espletata la sua funzione, muore. Il dilemma oscuro e profanatorio è evidente: vale la pena morire per far vivere gli altri? Tutti gli altri, anche il maestro che abusa di te dopo la scuola, o i tuoi genitori che non ti amano, o i compagni che ti bullizzano. Se il mondo fa schifo e tu già vuoi morire, magari tanto vale lasciare esplodere ogni cosa… La giovanissima età dei protagonisti aggiungeva una nota particolarmente amara a un dilemma solo all’apparenza superficiale: pur nell’immensità del sacrificio e del martirio, l’immensità immane e incommensurabile dell’alternativa – la reale e definitiva fine di ogni cosa – ti fa pensare: quanto male deve averti fatto il mondo per starci davvero a pensare? Quanto a fondo ti è stato instillato il bisogno di vendetta se piuttosto di morire salvando il mondo consideri di suicidarti in modo da portare il mondo con te?
Ecco, Narutaru comincia più easy. C’è il sole. Shiina, poco sopra i diec’anni, va in vacanza dai nonni, al mare. Fa il bagno, le sfide di nuoto con gli amici, si gode il caldo. Certo, annega a pagina 20, ma per qualche motivo si risveglia illesa a casa, niente di cui preoccuparsi. Continua a esserci il sole. Solo che mentre i polmoni le si riempivano d’acqua è successo qualcosa, un contatto, un legame con una buffa creaturina a forma di stella marina ma con la faccia. Tra le due nasce una sorta di amicizia che è anche un po’ simbiosi mentale. Il tutto ha un’aura di genuina fanciullezza, di meraviglia ed entusiasmo che trasudano già dalla copertina dell’albo.

Di lì a poco Shiina farà amicizia con Akira Sakura, una ragazza un po’ scura e senza dubbio segnata da qualche trauma, anch’essa legata a un buffo esserino a forma di stella. Pare che le due si facciano bene a vicenda, l’esplosiva protagonista con il suo ottimismo, la sua nuova amica con un fare più morigerato. A una storia però serve un cattivo, e non ci vorrà molto prima che altri ragazzi si mettano a combattere con le nostre entusiaste eroine, a pugni o servendosi delle loro creaturine – queste meno buffe e adorabili. Non fosse per i discorsi che cominciano a emergere – sul senso di fare dei figli, su quanto sia giusto accettare il mondo invece che farsi accettare – Narutaru parrebbe un manga di botte come ce ne sono tanti.

Ma c’è qualcosa di strano, di stridente, una sorta di velo oscuro che ammanta la vicenda e si fa via via più viscoso. “Che cosa fare quando ci si trova fuori luogo in ogni posto? O ci si adatta al mondo che ci circonda modellandosi in base a esso… o si fa in modo di cambiare il mondo perché sia adatto ad accoglierci come siamo” dice il primo antagonista della storia ad Akira appena dopo aver scoperto i tentativi di suicidio della ragazza. Morirà poco dopo.
Da qui inizia un lento e graduale, ma irrevocabile, cambio di tono. La trama in sé si infittisce, compaiono altri esserini – cuccioli di drago, si chiamano – e altri esseroni – draghi adulti –, il governo trama qualcosa, comincia a morire un sacco di gente, entrano in scena personaggi via via più criptici e moralmente edgy. Dal tono “scazzottata” tra bambini ci si muove verso un finale alla Evangelion sulla morte e rinascita del mondo. Ma soprattutto è la vera natura della serie di Kitoh a farsi poco alla volta manifesta. Per lo svelamento vero e proprio bisognerà aspettare il volume sesto. E in particolare la sequenza di quel volume che inizia a pagina 120. Non me la scorderò mai.
Hiroko è un’amica di Shiina, anche lei controlla un cucciolo di drago (uno grosso e dalla faccia cattiva, mica come Hoshimori). Hiroko viene sistematicamente bullizzata, da un pel pezzo, in brutti modi. Cerca di mostrarsi forte e di resistere ma è chiaro che è vicina a un punto di rottura. Quel punto di rottura finalmente arriva, in realtà qualche momento prima, quando le bulle le infilano una provetta di vetro nella vagina e la prendono a calci. A pagina 120 assistiamo in prima persona alla risposta.
Il draghetto controllato da Hiroko irrompe nella camera dove Aki, la capa bulla, sta amoreggiando con un ragazzo più grande. La scena è di per sé disturbante: Kitoh ha uno strano modo di dipingere una sessualità certo infantile e mimetica di quella adulta che in qualche modo ci arriva come sporca, corrotta, scevra da ogni forma di innocenza, densa d’una malizia che pare innaturale. Ricordo però che non è stato tanto il sesso fanciullesco quando ciò che accade appena dopo ad avermi fatto pensare “ok, capisco perché hanno dovuto scrivere “per un pubblico maturo” in copertina”.
Il drago controllato da Hiroko irrompe nella camera. Fa esplodere la metà superiore della testa al ragazzo spiaccicandola sul muro. Aki è pietrificata. Il mostro la solleva prendendola per la faccia, la bimba vomita. Bava e conati le colano sul seno appena accennato e sul ventre scoperto fino al pavimento. Il sul corpo seminudo e infantile ed eroticizzato, piccolissimo di fronte alla possanza ultraterrena del drago e alla sua irrefrenabile violenza. Aki è immobile, inerme, sollevata da terra da mani troppo forti per qualunque essere umano. Il mostro infila un dito nella vagina della piccola. Suppliche. “Oddio, no! Basta! Basta! Smettila!”. Poi urla. “Così mi ammazzi!”. Poi qualcosa cambia. “Perdonami! Ti prego!”. Aki sa chi le sta davvero facendo questo, chi controlla il mostro. Non basta. L’unghia del drago esce dal ventre della ragazza in un fermo immagine di silenzio terrificante. Finirà squarciata dall’interno.

A rileggere oggi quelle pagine, quasi quindici anni dopo, il loro effetto non si è certo affievolito: non si trattava quindi di un impatto amplificato da un diverso contesto editoriale, o nel mio caso esacerbato dalla giovane età. C’è invece una qualche forma di atemporalità nella carica di crudeltà, nella volontà stoica di non edulcorare alcunché, nell’assenza di vergogna e quasi di pudore, nella rappresentazione di un’infanzia spinta oltre i limiti della decenza, della morale, della compassione.
Kitoh, ribaltando il topos positivista del “ragazzino con amichetto animale”, mette in scena gli esiti di una sorta di peccato originale: l’abbruttimento dell’infanzia, la corruzione irrimediabile di qualcosa che dovrebbe invece essere intoccabile. Vediamo gli effetti di una ferita generazionale che è talvolta attrito lento e costante – la mancanza di prospettive incarnata da genitorialità quasi sempre manchevoli – e talvolta pugnalata lancinante e subitanea – i detestabili abusi familiari o tra pari. Da quel peccato di cui quei bambini e quelle bambine – violenti, sessualizzati, crudeli di una crudeltà cristallina, finalmente onnipotenti – sono il prodotto diretto non ci si può emancipare, è una colpa condivisa di cui pagare il prezzo. Quei bambini e quelle bambine ne sono il prodotto diretto.
Troppo spesso leggiamo storie in cui l’unica risposta possibile dell’infanzia a questo peccato imperdonabile è la sopportazione o, nel peggiore dei casi, il suicidio (anche collettivo). Sono storie, seppur più “verosimili”, in cui il bambino la bambina non possono agire che su se stessi e mi suscitano sempre il dubbio di un intento autoassolutorio o peggio vittimistico da parte di quello stesso mondo adulto che di quella rovina è responsabile. La rilettura di Kitoh è invece (e pertanto, per contrasto) doppiamente sconvolgente: da un lato per la brutale frontalità della sua violenza, che quasi suona come un monito, dall’altro perché fa subodorare la portata del trauma. Quanto dev’essere profonda la ferita per portare Hiroko a smembrare la sua compagna implorante a quel modo? Quando turpi gli abusi per spingere Akira a pugnalare il padre? Quanto irreparabile il mondo affinché l’unica scelta possibile non sia uccidersi, ma uccidere tutti gli altri e ripartire da capo?(Matteo Gaspari)