Lo sguardo deviato

(autoritratto)

Questo breve testo scritto da Andrzej Klimowski compare nel libro Lo sguardo deviato curato da Giovanni Fanelli e pubblicato dalla casa editrice OCTAVO nel 1999. Il libro esplora il lavoro del grande disegnatore ed illustratore Andrzej Klimowski, artista unico e originale, sempre a cavallo fra pittura e collage, fumetto e cinema.

L’ artista grafico che lavora per clienti commerciali ha poco tempo per fermarsi e riflettere retrospettivamente sulla propria opera. Egli è impegnato in incarichi ai quali deve corrispondere inventivamente e per lo più in tempi rapidi. La sua professione non è dissimile da quella del reporter. La loro è l’arte dell’ interpretazione. L’ obiettività è importante ma altrettanto lo è il senso della voce individuale. Il pubblico attende impazientemente l’ultimo pezzo del suo corrispondente preferito. Lo stesso vale per le nuove illustrazioni e metafore visuali del grafico.
C’è tuttavia un’importante differenza, in quanto l’ immagine è più ambigua della parola. Forse è questa ambiguità inerente alla figurazione che mi porta alla comunicazione visiva. Il racconto attraverso immagini, o nel caso di manifesti e copertine di libri la ‘segnalazione’ visiva di una storia, lascia all’audience un gran lavoro da fare: completare l’opera con la propria immaginazione. Questa intima collaborazione col pubblico mi dà grande piacere. Sono nato dopo la guerra da genitori emigrati e i miei ricordi più remoti mi riportano a una casa a Londra dove vivevamo con molte altre famiglie profughe di varie nazionalità. Durante il giorno ognuno nella casa svolgeva lavori domestici. La sera gli abitanti impiegavano il loro tempo parlando per ore in una stanza affollata nella nuvola di fumo delle sigarette. I bambini erano esclusi dalla stanza. Impiegavo il tempo vagando per i corridoi oscuri lungo i quali erano appese incisioni di carte geografiche, ritratti e parafernalia militari. Più tardi ho appreso che quella stanza custodiva gli archivi del movimento della Resistenza polacca. La stanza piena di fumo delle folte adunanze conteneva preziosi documenti, libri, fotografie e film degli anni della guerra. Questo, credo, è stato il mio primo incontro con l’arte grafica. Il fascino per il documentario, con immagini di un mondo che svanisce e un senso dell’ irreale che mi è rimasto fino ad oggi. Anche la mia attrazione per i media fotografico e cinematografico è nata da quelle precoci esperienze. Fotografia e film sono carichi di informazioni documentarie. Sono anche mezzi di illusione. Il fotomontaggio, o collage, sta in qualche modo a metà strada tra i due. Un collage è una narrazione in un’ unica immagine. Questo mezzo è divenuto il mio modo preferito di espressione.

Ho scoperto la Varsavia che conoscevo nelle fotografie di archivio quando studiavo presso l’Accademia di Belle Arti di quella città. Ciò che mi attraeva della città era che in essa potevo percepire un senso di distacco, qualcosa che avevo sperimentato da bambino in quella vecchia casa di Londra. Ero libero di vagare e osservare ogni cosa con sguardo fresco. Le cicatrici della storia erano visibili in ogni strada. La loro presenza viscerale ha fatto forte presa sulla mia immaginazione. Emozioni simili le ho provate vedendo Roma città aperta di Rossellini e sono fortemente connesse con il cinema italiano neorealista fino a includere Fellini e Antonioni. 

Quando progetto manifesti o illustrazioni per un libro o per un periodico la capacità di distacco e di vedere con occhio nuovo è di vitale importanza. Essa può garantire una soluzione inaspettata. La mia paura è la monotonia e la ripetizione. 

La mediocrità è sempre una possibilità e una grande minaccia. Al fine di serbare vitalità nel lavoro su commissione continuo a creare opere per mio conto, che talvolta possono portare a una mostra o a un libro ma più spesso rimangono nel cassetto. Il mio vecchio professore Henryk Tomaszewski definiva “igiene mentale” questa forma di attività. Essa nutre il lavoro commerciale e viceversa. Talvolta guardo nel mio cassetto e mi rendo conto che tutto questo lavoro è una autobiografia in codice. In esso appaiono Danusia Schejbal, mia moglie, e i miei figli, Dominik e Natalia. Sono le muse che diventano personaggi sempre diversi in un piccolo teatro di carta. 

Negli anni recenti sono divenuto consapevole dell’andatura sempre più accelerata della moda e della tecnologia. Il mondo dei media è in espansione e si sta annegando in un eccesso di informazione, gran parte della quale è di valore scarso e caduco. 

La mia risposta a questo stato di cose è una semplificazione dei metodi di lavoro. I miei collage sono diventati meno dettagliati e ho adottato l’incisione su linoleum, il pennello e l’ inchiostro per elaborare composizioni in bianco e nero assai scarne. Molto è lasciato nell’ombra; di nuovo confido nel pubblico e nella sua capacità di immaginazione per completare i racconti. 

Andrzej Klimowski, Londra 1999

Klimowski vive e lavora a Londra. È stato per anni responsabile della sezione Illustrazione del Royal College of Art dove è ora professore onorario. È attivo in tutti i campi della grafica applicata e dell’illustrazione e in particolare in quelli del manifesto e della grafica del libro. Nel suo linguaggio grafico – nel quale si integrano in maniera originale elementi della tradizione grafica polacca e di quella anglosassone – il sapiente e calcolato impiego del collage è funzionale a una poetica che aspira a esprimere la dimensione di un universo altro, in cui la realtà e il sogno si rapportano e si rispecchiano ambiguamente. La dialettica tra estraniamento e riconoscimento, tra gesto e ricordo, producono un’aurea e una spazialità cariche di tensioni psicologiche e di suspense.

Giovanni Fanelli è nato a Firenze nel 1936, è professore ordinario di Storia dell’Architettura. È noto come autore di numerose pubblicazioni di storia della città, dell’architettura, del graphic design, della fotografia.

English

A graphic artist working for commercial clients has little time to sit back and reflect upon his work, retrospectively. He is kept busy with commissions to which he has to respond inventively and usually with great speed. His profession is not dissimilar to that of the reporter. Theirs is the art of interpretation. Objectivity is of great importance but so is the sense of the individual voice. The public eagerly awaits their favourite correspondent’s latest column. 

The same is true of the graphic artist’s new illustrations and visual metaphors.
There is however an important difference, in that the image is more ambiguous than the word. It is perhaps this ambiguity inherent in the pictorial that draws me to visual communication. Storytelling through pictures, or in the case of posters and book covers the visual ‘signalling’ of a story, leaves the audience with a great deal of work to do.They have to complete the work through their own imagination. 

This intimate collaboration whit the public gives me great pleasure

I was born after the war of immigrant parents and my earliest memories take me back to a house in London where we lived with many other displaced families of various nationalities. During the day everybody in the house carried out menial work. In the evenings they spent their time talking for hours in a crowded room under a cloud of cigarette smoke. But children were excluded from the room, so I passed the time wandering the darkly lit corridors along which hung engravings of maps, portraits and military paraphernalia. 

I later learnt that this house stored the archives of the Polish resistance movement. The room in which I witnessed the smoke filled gatherings contained precious document, books, photographs and films of wartime years. This I believe was my first encounter with graphic art. A fascination for the documentary, with images of a vanishing world and a sense of the unreal has stayed with me to this day. My attraction to the photographic and cinematographic media also stems from these early experiences. Photographs as well as films are loaded with documentary information. They are products of illusions. The photomontage or collage lies somewhere in between. 

A collage is a story in one picture. This medium has become my chosen mode of expression. I discovered the Warsaw I knew from archive photographs when studying at the Warsaw Academy of Fine Art. What attracted me to the city was that, within it, I was able to feel a sense of detachment, something I had experienced as a child in that old house in London. I was free to roam and observe everything with a fresh eye. The scars of history could be seen on every street. Their visceral presence took a strong hold on my imagination. I experienced similar emotions when watching Rossellini’s Rome Open City and relate strongly to Italian neo-realist cinema including Fellini and Antonioni.
When designing posters or working on book and newspaper illustrations the capacity for detachment and seeing with a fresh eye is of vital importance. It guarantees an unexpected solution. My greatest fear is the onset of monotony and repetition, and mediocrity is always a possibility and a great threat.


Working on self initiated projects is vital if I am to bring life to commissioned work. These works can mature in an exhibition or a book, but usually remain in a closed drawer. My old professor Henryk Tomaszewski regarded this private work as professional hygiene. This form of activity provides for a healthy cross fertilisation. Occasionally I look into my drawer and see this work as a coded autobiography.
In it appears Danusia Schejbal, my wife, as do my children, Dominik and Natalia. They are muses who take on every changing characters in a small paper theatre. In recent years I have become aware of the quickening pace of fashion and technology. The media world is expanding at breakneck speed and we are drowning in an excess of information, much of which is slight and of no lasting value. My response to this excessive output is to simplify my working methods.The collages have become less detailed and I have been working in linocut and brush and ink, producing very sparse black and white compositions. Much is left in the shadows; again I rely on the public and their imagination to complete the stories. 

Andrzej Klimowski, London, September 1999

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